La gestione degli accordi 5 agosto 1971 e dell’11 luglio 1975

Commento di Cesare Cosi

Può sembrare strano, ma l’accordo 5-8-71 è rimasto operante, nella logica e nei contenuti più importanti (40′ di pausa, saturazioni individuali massime, diritti) fino all’ultimo accordo per Pomigliano. La parentesi negativa della SATA di Melfi (formalmente non Fiat) ha avuto la sua influenza soprattutto per quanto riguarda la metrica (TMC-2) ma la modifica delle pause sancita nell’accordo non ha influenzato le altre realta del gruppo, prova ne sia che a Mirafiori gli accordi separati del 2003 sancivano si il cambio della metrica ma lasciavano sostanzialmente inalterato tutto il resto.

La sua gestione è sempre stata caratterizzata dal tentativo sindacale di farlo applicare e di partire dai contenuti per migliorarlo e/o adeguarlo ai mutamenti di prodotto-processo che si verificavano, a cui si contrapponeva il tentativo aziendale di “interpretarlo” e/o di modificarlo nei suoi aspetti qualificanti, cogliendo tutte le opportunità che si manifestavano sia nel divenire tecnologico e organizzativo del Gruppo che nelle “disponibilità sindacali”.

Per chi ha vissuto la preparazione, la lotta e l’accettazione dell’accordo, sa bene che questo è stato vissuto inizialmente, da molti lavoratori e dai delegati, con poco entusiasmo, soprattutto perché, sui temi del salario e della qualificazione riconosciuta, non erano stati raggiunti, gli obiettivi richiesti.

Nell’ultimo Consiglione prima della firma, la maggioranza dei delegati considerava l’accordo una sorta di carrozzone farraginoso (per gli extra-parlamentari era un bidone) e pochi possedevano gli strumenti per comprendere che una corretta applicazione di quanto sottoscritto, ed una gestione dinamica, sarebbe stata una mezza rivoluzione.

Negli accordi del 1968-69 il sindacato aveva conquistato fondamentali diritti di informazione e di contrattazione, sancito il diritto all’effettivo godimento delle pause per bisogni fisiologici, iniziato il percorso per passare dall’arbitrio alla  regola, ma i tempi di esecuzione, i fattori di riposo, il livello di saturazione dei lavoratori, il controllo ed il miglioramento dell’effettiva condizione di lavoro sulle singole postazioni anche e soprattutto sotto il profilo ergonomico e della sicurezza, non era stato possibile affrontali.

Con l’accordo del 1971, i nodi non risolti sono stati posti al tavolo e contrattati, ma l’esperienza necessaria per una contrattazione di merito non era patrimonio di nessuno, quindi l’accordo sanciva delle linee guida certe (es. articolati livelli di saturazione sulle linee), ma l’interpretazione e la non semplice gestione era demandata alla contrattazione di stabilimento tramite i costituendi C.d.F.

Come già ricordato in altre parti del manuale, l’interpretazione e la gestione dell’accordo ha avuto percorsi originali alle Meccaniche di Mirafiori che, con i suoi circa 15.000 dipendenti, 26 linee  di montaggio ed il ciclo completo di tutti i motori e cambi di FIAT Auto era, in quegli anni, il ganglio vitale di Fiat Auto. Le soluzioni trovate sono state le fondamenta di un edificio (la contrattazione sul tema della prestazione globalmente intesa), che ha consentito di accumulare esperienza e strutturarla e che per decenni è stato l’unico modello operante anche per FIAT.

Queste esperienze, che si sono strutturate e consolidate tra il 1971 ed 1973, hanno trovato notevoli difficoltà nel confrontarsi con le altre realtà di Fiat Auto, e più ancora con l’Iveco, la Teksid, la New Holland , ecc. La ragione primaria di queste difficoltà erano differenze politiche trasversali a tutte le componenti della FLM e dei C.d.F.. 

C’era chi voleva gestire l’accordo tramite indicatori certi, misurabili e valutabili, affrontare senza nessun timore il confronto sull’o.d.l., la tecnologia, la metrica del lavoro e le scienze applicate, al fine di apprendere, consolidare regole e diritti, e costruire una solida capacità di contrattazione, e chi riteneva il definire gradualmente delle regole, un vincolo inaccettabile, limitante, e preferiva una sorta di gestione dinamica lasciata alla capacità di lotta, ai bisogni ed alla fantasia dei gruppi operai.

Ovviamente dato il clima politico e le nuove forme di rappresentanza nessuno poteva e voleva sfuggire al giudizio dei lavoratori interessati; ne consegue che qualsivoglia ipotesi di soluzione di un problema passava sempre al giudizio del gruppo di lavoratori interessato, una linea, un gruppo di cottimo, un reparto. Questo continuo confronto è stata una grande scuola di democrazia ed un grande momento formativo collettivo, non soltanto per i delegati ed i lavoratori ma anche per gerarchia, line e staff FIAT.

La contrattazione dei carichi di lavoro è da sempre la problematica centrale negli stabilimenti di media e grande serie. Alla FIAT, nel corso degli anni 70, la lotta contro i carichi di lavoro imposti dall’azienda era la centralità anche perché, partendo dalla contestazione e dall’analitico controllo delle singole mansioni, si riusciva a recuperare interi cicli e quindi affrontare l’o.d.l., l’ambiente e la sicurezza, la qualificazione

Date le dimensioni dello scontro di classe nei grandi stabilimenti FIAT, l’interesse sindacale su questo tema era più incentrato sul conflitto e su  una sofferta ricerca di validazione consensuale, che sull’utilizzo dello  stesso per la definizione di un sistema di regole certo sulla prestazione di lavoro.

Indicativo del dibattito sindacale di quel periodo sul come contrattare i carichi di lavoro, era un aneddoto preso dalla rivoluzione culturale cinese.

A chi proponeva di affrontare la contrattazione con la FIAT collocando gli accordi nel contesto dei modelli scientifici esistenti per capirli, verificarli e modificarli, contrapponendosi al sistema tutto incentrato sull’alternanza di arbitri diversi, alcuni dirigenti sindacali che gestivano la contrattazione rispondevano: “non importa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda i topi“.

Per coloro che non ci stavano e pretendevano di discutere il colore del gatto, (far rispettare gli accordi con l’intendo di definire delle regole), l’accusa classica era quella di piatto tecnicismo e di essere “scientista” o più banalmente, integrato  e suddito del modello padronale

Le due “anime” precedentemente citate, hanno continuato a coesistere fino all’ottobre ’80. Vedremo dopo quanto le esperienze di quegli anni hanno prodotto e cosa è sopravvissuto.

Nella concretezza della gestione dell’accordo, il primo problema che affrontammo furono i carichi di lavoro sulle linee di montaggio e le lavorazioni vincolate. Volevamo applicare subito quanto previsto sui nuovi livelli di saturazione (vedi) oltre che godere dei 40′ di pausa.

L’interpretazione FIAT dell’accordo sulle saturazioni si limitava al cambio dell’indice di saturazione nella loro formula sulla definizione del – Numero minimo di operai occorrenti – (vedi) per chi avesse necessità di riprendere l’intera problematica, vedere nel percorso – Tecniche di contrattazione il capitolo – Bialnciamento e Saturazione – Linee 1° parte.

Per i lavoratori, e per i delegati, questa interpretazione era quasi un insulto, una provocazione, perché nei fatti l’intero accordo si sarebbe limitato ad una diminuzione di pochi pezzi per ogni linea, vanificando, sul tema della prestazione, gli obiettivi che sindacalmente ci eravamo dati e ritenevamo di aver acquisito con la lotta.

Questi obiettivi non erano altro che ottenere la possibilità di discutere l’o.d.l. al fine di ottenere un consistente calo dello sfruttamento (produzione procapite), ed una più equa distribuzione della mansioni riducendo situazioni (singoli carichi di lavoro) riconosciute insostenibili da tutti.

La principale controversia, con la gerarchia e con l’analisi lavoro, era incentrata sui concetti di saturazione MEDIA del gruppo di cottimo contrapposta alla saturazione INDIVIDUALE di ogni singolo lavoratore, al fine di ottenere un BILANCIAMENTO equo della mansioni.

Per la controparte l’accordo era rispettato, per noi la corretta applicazione doveva potersi verificare su ogni carico di lavoro partendo da quelli più gravosi o insostenibili.

Per i delegati i riferimenti 84-86-87-88% era oggettivo che dovessero essere verificabili a livello individuale, ma il come non era assolutamente chiaro.

L’iniziale posizione del C.d.F. era quella che i valori si riferissero ai tempi totali, ma impostando verifiche sui valori numerici di alcune postazioni su diverse linee, le produzioni avrebbero subito un tracollo e quindi non si riteneva possibile che l’impostazione corretta fosse questa.

Il gruppo dirigente sindacale esterno aveva idee più confuse di quelle del C.d.F., alcuni di questi proponevano tabelle ed interpretazioni matematiche leggermente diverse da quelle aziendali ma sostanzialmente nella stessa logica, prevalentemente numerica e legata alla saturazione media quindi sbagliata. 

A fronte di tutta questa confusione la tentazione di imporre i volumi con i soli rapporti di forza operando una riduzione in percentuale dei volumi era presente; era parimenti presente, da parte dei compagni con maggiore esperienza, che forzature con queste caratteristiche avrebbero avuto le gambe corte ed avrebbero prefigurato uno scontro continuo durissimo con scarse possibilità di consolidare le eventuali conquiste e definire regole durature.

Il C.d.F. voleva il rispetto dell’accordo ma la strada non la trovava.

Questa situazione lacerava tutti; per quanto riguarda la controparte, la gerarchia accusava l’analisi lavoro ed il servizio personale di non saper fare proposte credibili, l’analisi lavoro ed il servizio personale accusavano la gerarchia di essere incapaci di far emergere i problemi reali, di aver prodotto una situazione insostenibile e, in ultima analisi, di non volere un accordo che togliesse loro il potere reale consistente nella completa libertà di gestione del come e del quanto gli operai dovessero lavorare in officina.

All’interno del C.d.F. il confronto era aspro ma un accordo era stato trovato; si continuava a fare sciopero fermando tutti i giorni più linee, sia del montaggio motori e che del montaggio cambi, con l’obiettivo di mantenere vivo il problema e far rispettare l’accordo, anche se non sapevamo come.

Il fatto che ha fatto precipitare gli eventi è stata la lotta sulle nuove linee dei motori della 128 (Ritmo), che con scioperi articolati, che minacciavano di trasformarsi in lotta ad oltranza, avevano iniziato a produrre fermate, per mancanza di motopropulsori, alle linee di montaggio  finale dello stabilimento di Rivalta (l’alimentazione dei motopropulsori avveniva con trasporto su gomma).

A fronte di questa minaccia che poteva allargarsi ad altre aree del montaggio, la direzione di stabilimento, tramite il capo del personale, commissionò ad un ingegnere dell’Analisi Lavoro Centrale di stabilimento (l’ing. F…..o) una soluzione che, in coerenza con l’accordo, assumesse la nostra priorità che rimaneva la possibilità di un controllo individuale del carico di lavoro coerente con quanto sancito nell’accordo. La sintesi di quanto proposto è rilevabile dal prospetto riassuntivo segreto di bilanciamento linea (vedi). Per chi avesse interesse a riprendere l’intera problematica, vedere nel percorso – Tecniche di contrattazione il capitolo – Bialnciamento e Saturazione – Linee 1° parte..

E’ in questo momento che il concetto di bilanciamento o livellamento delle attività emerge nella trattativa, ed è in questa fase che avviene, nei fatti, il fondamentale compromesso politico tra Consiglio di fabbrica e Direzione. 

Lo scambio consisteva nel fatto che loro accettavano che l’accordo fosse unicamente gestibile tramite la costruzione/verifica delle saturazioni individuali massime e non delle saturazioni medie conteggiate su tutto il gruppo; noi accettavamo di contrattare/verificare volumi e carichi di lavoro all’interno delle logiche sulle quali l’analisi lavoro operava.

Stabiliti dei compromessi su alcune squadre, per sanare le situazioni più gravi (aumento di organico a parità di volume prodotto), la sperimentazione concreta dei primi bilanciamenti è stata effettuata non sull’area motori ma sull’area cambi.

Questa scelta era stata anche consigliata dalle dimensioni più ridotte degli impianti dato che le squadre non superavano i 25-27 addetti a fronte dei 70-90 dei motori.

Dalle prime avvisaglie avute in termini di contestazione dei carichi di lavoro avevamo sentore che la scelta di passare da media cronometrica a TMC fosse per la Direzione di stabilimento un fatto certo e che avrebbe investito l’intero stabilimento.

L’applicazione del TMC ed il primo bilanciamento

La scoperta del TMC

Il primo impatto con il TMC era avvenuto subito dopo il ritorno dalle ferie. Su alcuni carichi di lavoro, certi di avere ragione, avevamo contestato alcuni rilievi contrapponendo, cronometro alla mano ed in presenza degli analisti, il nostro giudizio di velocità al loro. L’azienda dopo un po’ di discussioni ci ha comunicato che avrebbe risposto con un nuovo rilievo dove la discussione sul giudizio di velocità sarebbe stata ininfluente.

Dopo pochi giorni il Servizio Personale ci convoca e ci comunica, facendoci vedere ma non consegnandoci i nuovi rilievi, che i tempi contestati erano confermati e che la produzione era aumentata di 1 pezzo (il messaggio era chiaro). Detti rilievi erano fatti con il TMC che nessuno di noi conosceva né sospettava l’esistenza.

Alle nostre immediate proteste per l’uso di un sistema non contemplato negli accordi, l’azienda sosteneva che il TMC era patrimonio dell’azienda da molti anni, che la valenza scientifica del sistema era garantita dal Consorzio Internazionale dell’MTM, che detti sistemi erano in uso in tutto il mondo occidentale e quindi loro li avrebbero usati quando e dove lo ritenessero opportuno. Ovviamente ci sfidavano sul terreno delle contestazioni dicendoci che dovevamo dimostrare loro che i rilievi fossero sbagliati o che il sistema non fosse correttamente applicato.

Sospendemmo l’incontro con un nulla di fatto e, curiosi, ci mettemmo alla ricerca di tutte le informazioni possibili sull’MTM e sul TMC. In pochi giorni, grazie soprattutto ad una compagna che era fidanzata con un cronometrista di Rivalta fresco di corso di formazione, venimmo in possesso del manuale FIAT del TMC ed una sintesi del sistema MTM.

Da quelle letture e da qualche incontro al bar con il fidanzato della compagna, la cosa che ci incuriosiva maggiormente era capire come fosse possibile che l’elaborato di decine di università americane, mitigato da un coefficiente di correzione per abbassare i tempi MTM a 133 di rendimento, producesse il livello di sfruttamento che vivevamo giornalmente sulla nostra pelle. Sicuramente c’era qualcosa che non funzionava.

L’intelligenza di quel gruppo di compagni, alcuni parzialmente acculturati altri molto meno, è stata di decidere a maggioranza di accettare la sfida con l’azienda e di misurarsi concretamente su di una linea di montaggio con il nuovo sistema.

Per verificare chi avevamo dall’altra parte del tavolo e per dimostrare che non eravamo degli sprovveduti, chiedemmo un incontro alla direzione di stabilimento tutto incentrato sulla trasparenza e sui diritti d’informazione. Ci presentammo muniti delle fotocopie dei manuali e di tutto il materiale inerente al “nuovo” modello che però tenemmo nascosto; iniziammo il confronto chiedendo la consegna di tutti gli strumenti atti a sostenere un confronto di merito come d’altronde prevedeva l’accordo ed il CCNL.

L’azienda si rifiutò di consegnare il richiesto adducendo l’impossibilità di “infrangere il segreto aziendale”, e dopo ore di discussione sulla democrazia, i diritti, il ruolo dei Comitati e due interruzioni, la delegazione aziendale partorì due fogli di sintesi del TMC costruiti appositamente con tali lacune da rendere incomprensibile il tutto.

Dopo la consegna dei fogli, rendemmo visibili i nostri manuali ed iniziammo una filippica contro i segreti di Pulcinella ed i comportamenti antidemocratici e poco costruttivi della delegazione aziendale. Alla fine di quell’incontro tutti capimmo che lo scontro sui diritti d’informazione negati sarebbe stato un nodo cruciale del confronto tra Direzione e C.d.F.

Nell’affrontare il bilanciamento della prima linea di montaggio (montaggio cambi tipo 500 dove ero delegato), il rilievo base è stato completamente rifatto assumendo il TMC come sistema.

Le prime certificazioni del bilanciamento (vedi) pur essendo molto povere rispetto a quelle definite poco dopo, erano di straordinaria importanza perché definivano per la prima volta la precisa attività da svolgere ed erano comunicate, dietro nostra pressante richiesta, per iscritto. L’altro punto, ancora più importante, erano le perdite per imperfetto bilanciamento, che venivano immediatamente evidenziate, essendo gli analisti costretti a bilanciare le attività all’interno dei massimali sanciti dall’accordo con verifiche a livello individuale.

Man mano che gli analisti rifacevano il rilievo, si capiva che gli elementi centrali erano due, cosa dovevi fare, che veniva descritto e che si capiva abbastanza bene, e quanto era pagato che non si capiva assolutamente.

Alcuni analisti che erano  dei compagni o simpatizzanti hanno trasmesso di nascosto i principali rudimenti del modello, altri, non simpatizzanti e un po’ presuntuosi, si limitavano a continuamente ricordarci di “fare il lavoro come era prescritto” che al resto pensavano loro.

Questo continuo ricordarci di .. fare il lavoro come prescritto.., la cura con la quale si annotavano i movimenti compiuti, ed alcune giuste informazioni di merito trasmesse, hanno fatto scattare nella testa di alcuni di noi, soprattutto in coloro che avevano più esperienza lavorativa, una grezza constatazione: – se pagano i gesti che si fanno, più sono i gesti maggiori sono i pagati.

Da questa constatazione ha cominciato a farsi strada un convincimento che consigliava di evitare, nella fase di controllo/contestazione, quella che in seguito abbiamo chiamato “organizzazione informale“.

Come già scritto (vedi), questa Organizzazione informale consiste in un ciclo diverso da quello ufficiale perché trasformato, semplificato e/o arricchito da tutti gli accorgimenti, frutto dell’intelligente abilità dei lavoratori sedimentata nel gruppo e frutto dell’elaborazione collettiva.

Oltre a questo eravamo curiosi di verificare che cosa sarebbe successo, a fronte del nuovo che emergeva (accordo 1971, TMC, nuove possibilità di controllo), sulle produzioni e sui cicli se rispettati in tutti i loro punti come originariamente definiti, (organizzazione formale).

Passando però dall’organizzazione “informale” a quella “formale” l’azienda (gerarchia – analisi lavoro – servizio personale) si sono trovati in un mare di guai, perché la “formalità” era costosissima in termini di tempo.

Che cosa era successo sulla linea montaggi cambi della 500 e su tutte le produzioni del montaggio ?

Nel corso degli anni gli iniziali cicli, ricchi di attrezzature di sostegno per facilitare il lavoro, garantire la qualità del prodotto, la sicurezza della mansione, ecc. erano state rese in parte superflue dalla capacità d’adattamento, dall’abilità e dall’esperienza dei lavoratori. 

Questo risparmio di lavoro effettivo, la gerarchia l’aveva continuamente trasformato in produzione aggiuntiva con il beneplacito, il non coinvolgimento o l’agnosticismo dell’analisi lavoro; parimenti usava quello che diventava “vecchio” (attrezzature aggiuntive, controlli, ecc.) come elemento di ricatto verso i lavoratori <<se non effettuate l’aumento di produzione ripristino anche il ciclo ufficiale e vi costringo ad usare l’attrezzatura tale, a fare il controllo talaltro, ecc.>>.

Mutando lo scenario questa volta erano i lavoratori ed i delegati a chiedere che le attrezzature fossero usate, che il ciclo formale fosse assunto nel conteggio in termini di pagati effettivi, che l’intero impianto fosse verificato alla luce della formalità.

Naturalmente successe il finimondo, rispuntavano attrezzi che molti non avevano  mai usato e neppure mai visto; l’analisi lavoro  diceva di non sapere che le attrezzature non fossero più usate da anni. La gerarchia pretendeva che fossero conteggiate,  perché, oltre che essere una formale garanzia di qualità e sicurezza, non se la sentiva di assumersi, formalmente, la responsabilità della loro eliminazione, parimenti però pretendeva che la produzione non calasse ed accusava l’analisi lavoro di non saper fare il proprio mestiere. Il servizio personale non sapeva più a chi dare retta, non riusciva a formulare una linea politica coerente con il nuovo.

In parole più povere, le informazioni ed il livello di conoscenza della fabbrica tra i diversi livelli della scala gerarchica era molto carente, ed i vantaggi dello strapotere della gerarchia d’officina, utilizzati per anni dalla direzione, gli si ritorcevano contro.

Simulando il ciclo formale ogni giorno imparavamo tutti qualcosa, la memoria collettiva ritornava a galla e naturalmente non emergevano unicamente gli aspetti tecnici e organizzativi, ma anche le idiozie ed i comportamenti repressivi durati anni, le accuse mirate a questo e a quel capo, la dimostrazione oggettiva che tutti i tempi erano fuori anche dai vecchi accordi.

Altro aspetto molto importante era la progressiva crescita del dato della conoscenza sulla concretezza dei cicli di lavoro globalmente intesi. Per capire l’importanza politica e contrattuale di questo fatto non bisogna dimenticare che prima dell’accordo 71 a nessun sindacalista era concesso di girare liberamente per lo stabilimento, dato che vigeva la regola che per abbandonare la squadra di lavoro bisognava avere un permesso scritto. E’ quindi giustissima l’affermazione che un lavoratore di Mirafiori dopo decenni di lavoro la conoscenza della fabbrica si limitava al tragitto dal mezzo di trasporto ad una delle porte d’ingresso, da questa allo spogliatoio ed alla pendola di bollatura, per giungere poi alla squadra di lavoro delimitata da una striscia bianca che non poteva essere superata.

Entrata e percorsi

Dopo l’accordo centinaia di Delegati ed Esperti in tutti gli stabilimenti avevano la possibilità di muoversi ovunque, usufruendo delle ore di permesso sindacale, e finalmente i cicli di lavoro potevano essere concretamente indagati. Per i lavoratori la curiosità di sapere cosa c’era oltre la striscia bianca veniva soddisfatta con i cortei interni che passavano anche da uno stabilimento all’altro.

Per meglio comprendere l’importanza di questo fatto è bene fare un esempio concreto. Contestando le mansioni sulla linea della 500 Cambi la prima operazione della linea era gravata della discontinuità di alimentazione del convogliatore che portava la scatola cambio vuota ma completa di differenziale collaudato e semiassi montati, alla linea di montaggio. Richiedendo il rispetto del ciclo formale e non essendo più disponibili a fare un solo passo in più di quanto previsto, la discontinuità del convogliatore procurava nei fatti perdita di produzione perché non essendoci il semilavorato da prelevare l’operaio, a differenza del passato, si fermava ed il pendente sulla linea di montaggio avanzava vuoto. L’obiettivo era farci pagare del tempo in più per attesa convogliatore.

Nella discussione con i cronometristi era emerso che secondo loro il convogliatore doveva essere sostanzialmente pieno e che non potevano assolutamente pagare l’attesa convogliatore dell’entità rilevabile e da noi richiesta. Per accertare la veridicità dell’affermazione ci siamo spostati nella squadra che montava e collaudava i differenziali (distante un centinaio di metri dal montaggio) ed abbiamo scoperto che il responsabile di quella squadra più volte sacrificava l’alimentazione del convogliatore in rapporto al presenteismo o assenteismo del suo gruppo o ad altre esigenze. La contestazione quindi rimaneva e si ampliava da una squadra all’altra, i cronometristi avevano ragione ma anche noi, e le grane erano tutte nuovamente sui capi che se non rispettavano i cicli rischiavano la perdita di produzione senza che i lavoratori incappassero in diminuzione di salario o provvedimenti disciplinari. Ovviamente ad ogni imposizione si rispondeva immediatamente con lo sciopero.

Potrei fare centinaia d’esempi come questo con i riferimenti più disparati, sintetizzando si può affermare che iniziammo a scoprire, grazie al tipo di contestazione attivato, il divario tra previsione e realtà che per decenni era stato brutalmente scaricato sui lavoratori e loro imposto con la violenza. Se analizziamo poi le disfunzioni tecnico-organizzative emerse come dato ineliminabile dalla vita d’officina, l’azienda era costretta a riconoscerle come dato oggettivo, e queste davano un potere enorme ai delegati sia in termini di oggettive contestazioni non confutabili, che di parziali compromessi contrattabili.

Esplorando tutti gli accordi sottoscritti in quegli anni, soprattutto a livello d’officina o stabilimento, difficilmente si troveranno indicatori quali l’impossibilità di lavorare in curval’affollamento del tratto di linea, il numero di postazioni di lavoro teoriche e realmente utilizzabili, il massimale producibile su ogni impianto, ma in poco tempo questi temi diventarono oggetto di reale contrattazione e indicatori a cui tutti si dovevano attenere (vedi).

La direzione di stabilimento prese rapidamente coscienza che quel tipo di contrattazione li avrebbe portati ben oltre quanto da loro ipotizzato dopo la firma dell’accordo.

In quel periodo il gruppo dirigente non aveva la forza di imporsi decisamente alla gerarchia d’officina, ed aveva altresì grosse difficoltà di confronto con le istanze superiori, sia nel giustificare consistenti cali di produttività che di formalizzare le interpretazioni dell’accordo di gruppo che si andavano definendo.

Per uscire da questo impasse la loro decisione è stata quella di chiedere l’ausilio dell’Analisi Lavoro centrale di Corso Marconi con l’intervento diretto di propri analisti. Era ovviamente la prima volta che questo accadeva ed il fatto fu vissuto malissimo sia dalla gerarchia che dall’analisi lavoro interessata che non capivano che questa mossa era anche un far prendere coscienza all’istanza superiore delle difficoltà che lo stabilimento stava attraversando.

Questi analisti che potevano essere più preparati di quelli di stabilimento nell’uso del TMC erano sicuramente meno abili nella definizione dei cicli (dei metodi). Il risultato del loro lavoro è stato un bilanciamento che sulla carta recuperava parte delle perdite ma inapplicabile per giudizio collettivo (distribuzione delle mansioni irrazionali) quindi immediatamente abbandonato. 

A fronte di questo fatto, la direzione ha tagliato corto, ha incassato i colpi, ha formalmente riconosciuto che l’intero stabilimento era da ricontrollare e da adeguare al nuovo scaturito dall’accordo, non soltanto i montaggi. Ci chiese i tempi necessari, accettò di discutere le priorità officina per officina per sanare i problemi più gravi, fece rifare il corso del TMC a tutti i 52 analisti della Meccanica, e per ultimo, unicamente in ordine di elencazione, colse l’occasione per iniziare un lungo percorso volto a ridefinire, in modo più certo del passato, compiti e poteri della gerarchia, dell’analisi lavoro, dell’ufficio ambiente e sicurezza, del servizio personale, ecc..

In sostanza era la riscoperta della classica struttura taylorista gerchico-funzionale dove compiti e responsabilità venivano ridefiniti, a volte aumentati o delimitati, ma soprattutto ridava ruolo e poteri al servizio personale, all’anali lavoro ed a tutti gli enti tecnici, a scapito dello strapotere della gerarchia d’officina ritenuto, alla luce del nuovo scenario, fonte di guai.

Questa riorganizzazione avveniva però in presenza di una capacità di mobilitazione sindacale altissima, e di un C.d.F. motivato e che aveva accettato di confrontarsi anche sul loro terreno. Grazie ai rapporti di forza favorevoli ritenevamo di poter e di dover contrattare con chiunque. Ovviamente il momento primario e formale era con il Servizio Personale ma non c’era dirigente o responsabile che fosse immune dal coinvolgimento diretto nella contestazione o nella richiesta di spiegazioni.

Com’è facile intuire, giorno per giorno ampliavamo il dato della conoscenza, non solo sulla concretezza del ciclo della fabbrica, ma soprattutto sull’organigramma delle responsabilità, sui compiti e sul potere reale dei vari soggetti con i quali trattavamo, sulle cordate esistenti. Avevamo pure “la presunzione” di saperci inserire in questi “giochi” e di giudicare le competenze ed il grado di onestà e preparazione di chiunque.

L’esperienza del bilanciamento sulla linea della 500 Cambi è stato uno spartiacque perché l’abbassamento del volume ottenuto (la produzione procapite di due lavoratori) ha convinto quasi tutti i delegati che la strada intrapresa fosse quella giusta. Da quel momento in poi il controllo dei carichi di lavoro diventò compito primario dell’intero Consiglio e base di tutto il processo di crescita della capacità di contrattazione.

Nei fatti si instaurò una sorta di gara con l’analisi lavoro e con tutti gli Enti operanti in stabilimento. L’intervento mirato ed analitico sui singoli carichi di lavoro oltre che favorire un costante e proficuo rapporto con i compagni di lavoro consentiva, ai membri dei Comitati Cottimo e più in generale a tutti i delegati, una visione poliedrica del rapporto uomo-mansione dato che questo veniva letto in termini cronotecnici, impiantistici, ambientali, antinfortunistici, ergonomici e di qualificazione applicata e riconosciuta. 

Non avevamo certo la presunzione di ottenere l’uomo giusto al posto di lavoro giusto ma è sull’onda di questi interventi che da subito e negli anni abbiamo chiesto, ed a volte imposto con la lotta,  lo spostamento a mansioni più consone alle attitudini fisiche centinaia di lavoratrici e lavoratori o tempi di lavoro parzialmente attenuati in presenza di inidoneità di varia natura. A metà degli anni ’70 avevamo pure definito e concretamente organizzato intere linee dove, con servomezzi specifici e tempi d’esecuzione appropriati, lavoravano inidonei anche gravi senza essere ghettizzati, nei normali reparti di produzione, e con una produttività accettabile dato il loro stato.

Senza tema di essere smentito, posso affermare che nel tempo i migliori delegati avevano acquisito una professionalità sindacale globalmente intesa maggiore di qualsivoglia tecnico o dirigente aziendale, dato che questi potevano saperne di più su di un tema specifico ma la loro professionalità era settoriale mentre quella dei nostri migliori delegati, sempre sul tema della fabbrica, era poliedrica quindi più ricca.

Molto rapidamente alle contestazioni si sono abbinate le proposte ben prima di qualsivoglia diagrammazione Cedac o cassetta delle idee. Le proposte nascevano dell’intelligenza collettiva dei gruppi operai, dai bisogni dei singoli e dall’intreccio tra queste e le esperienze dei delegati costretti per formularle a collocarle nell’ambito dei modelli tecnici e gestionali operanti.

Per capire meglio questi passaggi è bene fare alcuni esempi.

Uno dei problemi principali sulle linee montaggio motori era l’affollamento (rapporto alto tra pendenti utili e lavoratori posizionati), dati gli alti volumi impostati (quasi tutte le linee erano vicine al primo di cadenza).

Linea-mont.motori

Le linee di montaggio di quegli  anni erano rettilinee, lunghe un centinaio di metri e costituite la una catena centrale a cui erano appesi dei pendenti (webb) distanziati 1,25 metri su cui, fissato il basamento all’inizio linea, il motore in fasi successive veniva completamente montato per poi essere convogliato, sempre sullo stesso pendente, in sala prova ed alle linee di finitura dove il motore collaudato veniva unito al cambio.

Completato il motopropulsore questo veniva sganciato dal pendente che ritornava all’inizio linea, mentre il prodotto finito veniva o convogliato in carrozzeria tramite un percorso sotterraneo o spedito, tramite appositi contenitori, agli stabilimenti di montaggio finale decentrati rispetto a Mirafiori (Rivalta, Chivasso, ecc.).

Ovviamente tutti i particolari voluminosi che necessitavano per il montaggio (alberi motore, volani, teste cilindri, ecc.) erano convogliati per via aerea o sotterranea dalle officine di produzione al montaggio, con i convogliatori che scendevano a lato linea in zone definite al fine di poterli prelevare e montare. I particolari non voluminosi o provenienti da ditte esterne erano posizionati a lato linea in cassoni o appositi contenitori come pure le minuterie di vario tipo.

Se si analizza il costo del solo motore nel montaggio in linea, dei tipi montati in quegli anni (131 – 132 -138, ecc.), si evidenzia un valore che oscilla tra i 65 ed i 78 minuti.

Più di 50 di questi minuti erano utilizzati per completare il montaggio delle varie parti fino al montaggio della testa cilindri e le successiva messa in fase. Il resto del lavoro era dedicato alle particolarità di ogni allestimento.

Il problema rimasto “sconosciuto” per anni era quello che le discese dei convogliatori definivano una o.d.l. ed una distribuzione delle mansioni molto rigida. Infatti prima dell’inserimento dell’albero motore l’insieme pistoni, biella-manovella, e supporti di banco e di biella specifici dovevano essere montati, ed a prescindere dal volume impostato e dai conseguenti lavoratori posizionati, lo spazio a disposizione per le attività era forzatamente quello stabilito dalle zone di discesa dei convogliatori di alimentazione. La stessa cosa valeva per il posizionamento e l’ancoraggio della testa cilindri e degli altri particolari.

La risultanza finale di questo layout impiantistico era che il 70% circa degli addetti era concentrato nella prima metà delle linee con ulteriori indici di affollamento tra i vari tronconi del primo tratto.

Ad aggravare il tutto vi erano poi le zone di rifornimento dei particolari non convogliati che erano collocati in contenitori vari sotto i convogliatori con interferenze continue dei pendenti portapezzo nel momento del prelievo dei particolari, ed i banchi portaminuterie (bulloni, rosette, grover, ecc.) che non si potevano spostare perché affogati nel cemento (vedi).

Controllando i carichi di lavoro con il TMC tutti gli intoppi, le interferenze tra un lavoratore e l’altro, le attese, i rischi ambientali ed infortunistici venivano evidenziati e pretendevamo che fossero pagati non accettando più, come avevamo fatto all’inizio della gestione dell’accordo ’71, di sanare le situazioni aumentando l’organico a parità di produzione, perché ci rendevamo conto di peggiorare la situazione e di non risolvere nulla.

Lo scontro con la direzione si fece feroce perché ovviamente rifiutavamo bilanciamenti delle attività che superassero un certo limite, abbassando nei fatti il massimale producibile degli impianti con un danno enorme essendo, a quel tempo, la Meccanica di Mirafiori, un ganglio vitale, producendo la quasi totalità dei motopropulsori di FIAT Auto.

Se avessimo solo pensato al conflitto, se ci fossimo fatti convincere dal… perché risolvere noi i problemi del padrone, lascia che la gente rimanga incazzata…ci saremmo trincerati dietro a queste posizioni che erano ineccepibili sul piano del modello cronotecnico e che costringeva l’azienda a dire… i motori si devono fare e gli impianti sono questi, soluzioni non ce ne sono e voi…. (ritornava il distinguo tra costruttori e distruttori).

Avendo però in testa sì la difesa della qualità della vita di lavoro della nostra gente ma anche l’interesse a che la fabbrica funzionasse, facendo propri consigli, interrogativi di decine di lavoratori, di operatori di capi ma soprattutto misurandoci quotidianamente con il controllo dei carichi di lavoro, abbiamo, come Consiglio, elaborato una proposta di parziale trasformazione impiantistica che abbiamo proposto alla direzione.

La proposta consisteva nella modifica delle discese dei convogliatori e nella razionalizzazione delle alimentazioni a lato linea al fine di ridurre rischi infortunistici, disagi dei lavoratori, occasioni di conflittualità, costi passivi oggettivi ma riducibili, e ridefinizione dei massimali producibili. Ricordo ancora l’incazzatura del capo officina del montaggio (il Cavalier N…..o, carrista che si vantava continuamente di aver combattuto in Africa) quando con qualche schizzo alla mano, abbiamo presentato a lui per primo la proposta. Rivolto al suo staff, sempre ovviamente in piemontese, disse.. con quanto vi pago e con l’esperienza che avete, uno straccio di proposta devono essere “questi” a farla. La cosa che lo colpì particolarmente era la richiesta di liberare i banchi portaminuterie dal cemento, di aggiungergli le gambe mancanti affinché con i carrelli si potessero spostare a piacimento lungo la linea, risolvendo alcuni problemi di bilanciamento delle attività e relativi costi (passi aggiuntivi al cambiare del bilanciamento).

Questa modifica fu fatta su tutte le linee di montaggio nel giro di una settimana e parimenti fu avviato il confronto anche con i responsabili degli impianti e dell’analisi lavoro, per la trasformazione dei convogliatori e della riorganizzazione dei rifornimenti a lato linea. L’idea li fece discutere e litigare ma alla fine le risorse furono stanziate, una trasformazione accettabile si fece, anche se la primogenitura dell’idea e della proposta concreta era stata dei lavoratori e del Consiglio e non dei gestori o dei tecnici aziendali.

Potrei citare centinaia di esempi come questi da quelli corposi a quelli “banali” come pretendere di lavare le minuterie che arrivavano dal magazzino se queste erano sporche di tricloro etilene (un’antiossidante) dato che irritava l’epidermide; o far inserire una pedana nella zona di taratura delle teste ciclindri per consentire, anche ai bassi di statura, di agire sulle chiavi dinamometriche con la spalla e non solo con le braccia. La cosa che mi preme sottolineare è che i bisogni della gente ma soprattutto le proposte, si scoprono sviscerando il carico di lavoro assegnato e collocandolo in un modello complesso dove metrica, antinfortunistica, ambiente, impiantistica, qualità del prodotto e qualificazione fanno un tutt’uno. Ovviamente il tutto è utile non solo ai lavoratori ma rimane una grande scuola anche per gestori, staff e line aziendali.

LETTERA DI CONTESTAZIONE

Se non avessimo testardamente continuato per anni a controllare e contrattare tutti i carichi di lavoro con gli stessi principi non sarebbe stato possibile produrre lettere di contestazioni come queste (vedi), che opportunamente archiviate costituivano, con le relative risposte scritte della direzione (vedi), il patrimonio di ogni Consiglio d’officina, la certificazione del loro operato, il veicolo di trasmissione delle esperienze nell’alternanza dei delegati su ogni gruppo omogeneo.

Naturalmente per contrattare in questo modo le informazioni erano e sono indispensabili. Per informazioni intendo proprio un Sistema di diritti d’informazione, in parole povere pretendevamo che nessuna informazione relativa alla condizione di lavoro di chi rappresentavamo, o prevista dagli accordi esistenti, ci fosse preclusa.

Gli accordi esistenti sancivano che tutte le informazioni relative ai carichi di lavoro, alle sostanze usate, ecc. ci fossero comunicate ma da nessuna parte c’era scritto che dette informazioni ci fossero trasmesse in fotocopia. Un carico di lavoro di due minuti su di una linea consta di 7-8 fogli di rilievo base e di 2-3 fogli di bilanciamento ed era impensabile che per verificarlo si continuasse a fare la spola tra il posto di lavoro e l’Ufficio Analisi Lavoro per visionare il rilievo.

L’azienda sperava di scoraggiarci dal perseguire il controllo analitico negandoci la consegna delle fotocopie ma consentendoci unicamente la consultazione negli uffici preposti. In ballo c’era un diritto da noi ritenuto fondamentale quindi abbiamo cominciato a metterli alla berlina con grandi manifesti (ta-ze-bao ??) esposti in officina, dove con vignette e indicazioni inequivocabili riferite ai responsabili, chiedevamo cosa avessero da nascondere dato che ci impedivano di controllare il loro operato. Nello stesso tempo, ad ogni sciopero che si dichiarava veniva aggiunta la richiesta dei diritti d’informazione, e utilizzando il corposo monte ore esistente, mandavamo 3 compagni ogni giorno a copiare rilievi negli uffici. I compagni preposti pretendevano di avere le scrivanie a disposizione, fumavano il toscano, sequestravano i dossiers per ore, e limitavano il dialogo all’interno dell’ufficio.

Lo scontro è durato più di un anno e l’opposizione primaria era relativa non tanto al segreto aziendale (“segreto” tecnologico-industriale, vedi timbro apposto su ogni foglio) ma al fatto che in occasione di infortuni o contestazioni che varcassero il perimetro dello stabilimento (es. Ispettorato del lavoro) i delegati avessero la possibilità di certificare l’insieme dei fatti anche con documenti ufficiali aziendali e poi non bisogna dimenticare che la gerarchia d’officina era investita della responsabilità civile. Alla fine, visto che non cedevamo su nessuna officina, la direzione si è arresa e nel tempo le sedi dei Consigli d’officina diventarono la copia degli uffici analisi lavoro con gli stessi materiali e persino la stessa organizzazione logistica degli armadi. (vedi foglio di bilanciamento) – (vedi foglio di rilievo). Notare che dette conquiste sono ancora godute dopo l’ottobre 1980.

Questa conquista è stata di straordinaria importanza anche come momento formativo tra i delegati dato che col tempo si sono formati esperti nella attribuzione dei pagati (i membri dei Comitati Cottimo) mentre sulla descrizione delle attività (organizzazione formale e divario tra previsione e realtà) tutti i delegati erano capaci a leggere il rilievo e fungere da segnalatori di problemi.

Naturalmente tutto quello che poi ci interessava dai fogli di impostazione della produzione, alla rilevazione dell’assenteismo, ai layout impiantistico in scala 1/100 o ridotta, ecc. ecc. tutto veniva richiesto e se non concesso dalla direzione cercavamo di venirne in possesso tramite capi, impiegati, sorveglianti, ecc. o semplicemente “li prendevamo in prestito” ed alla prima occasione li portavamo fuori col primo corteo o li occultavano nelle sedi sindacali per studiarli (vedi).

Altro aspetto importante relativo alla consegna dei rilievi è stata la velocizzazione dei controlli e delle contestazioni e quindi il notevole risparmio in termini di monte ore. Per fare il rilievo di un minuto d’attività ad un analista sono formalmente concesse 8 ore, a noi per il controllo bastavano pochi minuti, durante i quali rendevamo edotti anche i singoli lavoratori della “correttezza” o meno di quanto controllavamo, certificando ai dubbiosi che l’azienda li stava fregando.

ACCORDO 11 luglio 1975 (Meccanica Mirafiori)

Nella fase iniziale dell’applicazione dell’accordo eravamo favoriti, oltre che dalle conquiste oggettive relative all’accordo, anche dal fatto che questo si applicava su una precedente situazione caratterizzata dall’arbitrio padronale. 

Col tempo questo impatto positivo venne meno, e gli ulteriori margini di conquista si affievolirono man mano che i carichi di lavoro si avvicinarono alla risultanza di una corretta analisi lavoro. Ovviamente, pur se con forzature da ambo le parti, l’iniziale compromesso venne rispettato e se un ciclo assestato subiva delle variazioni al prodotto, agli impianti o alle attrezzature in dotazione, gli addetti ed i volumi producibili venivano immediatamente adeguati (dicevano – un bullone in più.. un pezzo in meno – un bullone in meno.. un pezzo in più) (vedi).

Gli anni dal ’71 al ’75 sono stati caratterizzati dal consolidarsi di questi aspetti su tutte le officine dello stabilimento. Nel 1975 alla luce della crisi che il settore auto stava attraversando, non rinnovo del turn-over trasformazioni impiantistiche, spostamento di lavorazioni, mobilità interna negli stabilimenti e tra i settori del Gruppo Fiat, le Direzioni tentarono di colpire quanto conquistato sia con gli accordi di gruppo che con l’ultimo CCNL (resistenze all’applicazione dell’inquadramento unico).

Nella nostra realtà, date le caratteristiche del ciclo ed essendo fornitori degli stabilimenti terminali, gli attacchi erano particolarmente pesanti soprattutto sul tema della mobilità interna. 

Dovendo rispondere ad un mercato in crisi, la tradizionale impostazione dei volumi (lotti costanti e adeguate scorte di finito) fu sostituita da una continua variazione dei programmi produttivi, con forti oscillazioni dei mix produttivi (già allora i tipi e le specialità superavano le 190), violando accordi esistenti e rifiutandosi di normare le nuove esigenze.

Lo strumento principale utilizzato per soddisfare queste esigenze era la mobilità interna giornaliera. In sostanza sfruttavano i layout esistenti caratterizzati dalla notevole capienza dei convogliatori di alimentazione dei cambi finiti verso le linee di finitura. Essendo questi lunghi qualche chilometro “contenevano” diverse centinaia di cambi quindi cali produttivi in quest’area non bloccavano la produzione dei motopropulsori aumentando unicamente il carico di lavoro (attese) delle prime postazioni delle linee di finitura (Unione motore collaudato-cambio).

Sfruttando questa opportunità la direzione costringeva ogni giorno decine di lavoratori dei cambi a cambiare officina e spostarsi ai motori al fine di coprire oltre alla mancanza di addetti strutturali anche esigenze di assenteismo e di mix. All’interno poi delle due aree (motori e cambi) spalmavano gli addetti al fine di adeguarli all’impostazione giornaliera dei volumi.

Nei fatti si costringevano (anche dietro la minaccia di mobilità) centinaia di lavoratori (operaio-valigetta) ad una ampia polivalenza nel proprio gruppo, nella propria area e su più aree. Polivalenza che doveva essere espletata immediatamente ad a rendimento 133 violando usi e consuetudini consolidate ed ovviamente gli accordi esistenti

La gestione di questi fatti, voluta dal gruppo, era gestita da un nuovo direttore di produzione e da un nuovo capo del personale frutto della creazione della Divisione, un coordinamento centralizzato di tutti gli stabilimenti della Meccanica del gruppo.

L’insieme di questi fatti, che potevano avere anche delle ragioni oggettive, erano però abbinate ad un manifesto peggioramento politico nelle relazioni con il C.d.F. finalizzato al recupero delle conquiste degli anni passati. Oltre a questo l’insieme dello stabilimento viveva malissimo la non applicazione dell’inquadramento unico con il mancato riconoscimento della qualifica superiore per addetti linea (da 2° a 3° liv.), per carrellisti, sale prove motori e cambi, revisione motori e cambi e cabine prove speciali, vasti settori di addetti macchina e costruzione e manutenzione per le tradizionali professionalità.

Oltre a queste “certificabili” rivendicazioni vi era poi il problema dei vincoli di linea non riconosciuti come tali, della mobilità interna e della polivalenza che, per noi, significava arricchimento professionale che, se completato (rotazione su tutte le postazioni di una linea) prefigurava nei fatti che i lavoratori in questione, oltre che poter essere normalmente utilizzati come sostituti assenti o rimpiazzi, potessero essere utilizzati direttamente come revisionatori sia a lato linea che nei settori di revisione dopo le fasi di collaudo (la revisione consisteva nello smontaggio parziale del complessivo, nella sostituzione del particolare difettoso e nel rimontaggio del tutto) sempre a rendimento pieno senza pretendere, come previsto, i giorni di affiancamento quando si cambiava mansione. Alla luce di questi possibili sbocchi eravamo anche disposti a garantire forme di mobilità interna contrattata tra aree diverse.

L’obiettivo era quello di costruire una blocco unico dei lavoratori, sia dell’area motori che dell’area cambi, dove i più volenterosi ed i più capaci (ma senza preclusioni aprioristiche) avessero la possibilità di crescere professionalmente e gradatamente potessero migrare dai montaggi alle sale prove, alle revisioni alle cabine prove speciali (2° – 3° – 4° – 5° livello in progressione). Per le altre lavorazioni volevamo il riconoscimento di mansioni collocabili ben oltre il terzo livello completabili anche con arricchimenti professionali possibili e funzionali anche negli interessi dell’azienda. Cosa ovviamente ben diversa dalla -seconda per tutti- di sessantottina memoria.

Com’è facile intuire pensavamo che questa proposta fosse appetibile anche per l’azienda per gli ovvi vantaggi sia di gestione del personale, che di motivata partecipazione dei lavoratori ai temi dell’identificazione con il lavoro, della produttività e della qualità. Scenario poi perfettamente collocabile nelle trasformazioni impiantistiche e di arricchimento professionale richiesto ed ipotizzato.

Speravamo di affrontare l’insieme di questi problemi con altri settori di Mirafiori o con più stabilimenti del Gruppo, ma la situazione politica non era favorevole e sul tema della qualificazione, nel gruppo dirigente vi era una sorta di miraggio che le innovazioni tecnologiche, che gradatamente si stavano realizzando e si preannunciavano, avrebbero risolto da sole molti problemi di qualificazione, quindi si manifestò, a livello della FLM di Torino,  una sorta di blocco dell’iniziativa politica coordinata anche se molti stabilimenti avevano iniziative in corso.

Per noi gli attacchi che stavamo subendo non erano più tollerabili pena un forte arretramento nella credibilità del C.d.F., ma la possibilità di forte mobilitazione su tutto lo stabilimento non l’avevamo anche perché le rivendicazioni, pur vaste come numero di addetti, non coinvolgevano tutti. Decidemmo unitariamente di partire in uno dei settori forti, le sale prove motori e relative revisioni (sbocchi al 4° ed al 5° livello), sperando che quella lotta trascinasse tutte le altre aree coinvolgibili nelle richieste soprattutto i montaggi.

L’accordo sulle forme di lotta con questi lavoratori era particolare perché si trattava di fare scioperi articolati, tutti interni ed a comando, per procurare il maggior danno possibile ed evitare la risposta padronale consistente nelle mandate a casa di intere linee di prodotto, per mancanza di materiale.

Cronometro alla mano studiammo i tempi di percorrenza dei pendenti webb dalle sale prove alle linee di finitura e dal momento dello scarico (fine linee di finitura) alla ridiscesa all’inizio linea di montaggio; scatenavamo lo sciopero nelle sale prove, sempre riuscito al 100%, nei tempi studiati a tavolino, ottenendo sia la perdita dei motori non collaudati e quindi non spediti, che perdite ulteriori per PARZIALE mancanza di materiale sia sulle linee di finitura che al montaggio. L’astuzia consisteva nel non dare adito alle mandate a casa perché ai montaggi ci si fermava per pochi minuti molte volte al giorno, ma i pendenti per riprendere il lavoro erano sempre in arrivo, ed i capi non se la sentivano di dire.. andate a casa perché, come vedete, non c’è lavoro.

Dopo un paio di settimane la direzione, visto che la lotta delle sale prove teneva, ha rotto gli indugi ed ha tentato di mandare a casa i lavoratori delle linee in occasione degli scioperi delle sale prova. L’operazione però non gli è riuscita perché invece di andare a casa i lavoratori si sono messi in sciopero per le loro richieste, e da quel giorno con una progressione formidabile tutte le aree con contenziosi su mobilità e qualificazione si sono messi a scioperare. Avevamo ottenuto il nostro scopo principale la mobilitazione dello stabilimento.

L’azienda alla luce degli scioperi anche ai montaggi ha tentato più volte la mandata a casa di intere officine di lavorazione per eccesso di materiale non utilizzato o per mancanza, ma questo non ha fatto altro che esasperare ulteriormente gli animi e le lotte. Si sono fatte 156 ore di sciopero con cortei interni ed un grande corteo esterno attorno allo stabilimento, e due occupazioni della palazzina uffici di stabilimento.

La prima è avvenuta in occasione del tentativo di mandata a casa della Meccanica 2 dove i lavoratori andavano cercando un certo D……o Capo del Personale, perché i capi officina, non sapendo come giustificare la decisione aziendale, scaricavano la responsabilità sul Capo del Personale, ed i lavoratori lo cercavano “per chiedere spiegazioni”.

Durante questa occupazione una rappresentanza del C.d.F. era all’Unione Industriale per trattare, quando è arrivata la notizia che – in stabilimento c’era pericolo per le persone -; arrivati in stabilimento trovammo l’intero gruppo dirigente di stabilimento e di Divisione confinato in un angolo della grande sala riunioni e piuttosto spaventato, dato che tutta la palazzina era piena di operai e fuori stazionava il restante dell’intero turno di lavoro, dato che tutti ormai erano in sciopero.

La trattativa per sbloccare la situazione era problematica perché i lavoratori non avrebbero accettato di cessare l’occupazione se non fossero finite le mandate a casa. Mentre il capo del personale si accingeva a riconfermare le mandate a casa, anche se il C.d.F. si impegnava a far riprendere il lavoro alle linee di montaggio e ripristinare quindi la normalità,  il capo Divisione lo ha zittito accettando la proposta del Consiglio di ripresa del lavoro e dipagamento solo di quelle ore di fermata. In poco tempo tutta la situazione si è sgonfiata i lavoratori hanno accettato, ed al canto di bandiera rossa (il PCI era diventato maggioranza relativa alle elezioni amministrative), tutti sono ritornati al lavoro.

Il giorno dopo in tutti gli stabilimenti era presente il comunicato aziendale n°….. un grande manifesto di color verde acqua (vedi) che diceva:

…. Nel corso di uno sciopero nello stabilimento Meccanica di Mirafiori avvenuto mercoledì, il direttore è stato costretto da alcuni facinorosi, penetrati con la forza nella palazzina uffici, ad accogliere richieste relative a temi che erano in discussione con le organizzazioni sindacali…..

In meno di un’ora la palazzina era nuovamente occupata ma, ovviamente, c’erano solo pochi impiegati e nessun dirigente.

Dopo questi fatti (vedi ultimo volantino) fu trovato l’accordo (vedi) che regolamentava:

Palle verde per elenchi

 Officine 77 (Sale prove e revisioni)

Palle verde per elenchi

 Officine 73-76  montaggi

Palle verde per elenchi

 Torneria plurimandrinistica Mecc. 1 – 2

Palle verde per elenchi

 Off. Ausiliarie di manutenzione (92-93-98)

Palle verde per elenchi

 Titoli di studio professionali

Palle verde per elenchi

 Collaudi – Accettazione e volanti

Palle verde per elenchi

 Lavorazione pistoni e meccanica varia

Palle verde per elenchi

 Carrellisti

Non era una vittoria piena ma quasi. Le sale prove e le revisioni avevano ottenuto tutto (sbocco al 4° ed 5° livello con progressione certa di carriera, la torneria (la più grande d’Europa e forse del mondo) aveva ottenuto l’immediato passaggio di 122 lavoratori al 4° livello e verifiche mensili per l’ampliamento alla quasi totalità degli addetti tramite arricchimenti delle mansioni. Per le altre aree le conquiste erano anche consistenti ma  l’accordo aveva buttato le basi per il proseguimento delle lotte sul miglioramento della qualificazione riconosciuta, riconosceva valore alla polivalenza ed alle rotazioni conoscitive, regolamentava la mobilità interna ed ampliava il concetto di vincolo impiantistico (es. settori di premontaggio collegati alle linee, trasferte e tavole rotanti) facendolo fuoriuscire dalla strettoia normativa della tradizionale linea di montaggio.

Il successo di questa lotta frustrò gli appetiti padronali in termini di revisione delle conquiste sui tempi di lavoro, dopo poco tempo il capo del personale fu sostituito, ed il modello precedentemente impostato ritornò ad essere operativo senza più attacchi frontali fino all’ottobre 1980.

E’ anche certo che attorno a quel periodo il modello della Meccanica inizia a migrare, in modo più o meno manifesto e trasparente, in altre sezioni e stabilimenti essendo l’unica impostazione credibile di gestione dell’accordo sulle linee e sui livelli di saturazione scaturenti dall’accordo 5/8/71, anche se, formalmente, la direzione centrale FIAT non ha mai riconosciuto come corrette queste interpretazioni, pur se elaborate a Mirafiori e da loro tecnici.

Purtroppo (secondo la mia opinione) la risposta sindacale alla gestione del tutto non seguì l’impostazione che noi ci eravamo data, e purtroppo non siamo mai riusciti a far concretamente migrare la nostra esperienza altrove, tolto forse lo stabilimento di Rivalta grazie ai compagni di quel C.d.F. Nella falsa diatriba tra “tecnici e politici” più volte non i politici ma i social confusi avevano la meglio.

Nel prosieguo dell’esperienza di gestione dell’accordo si evidenziavano sempre più i limiti del modello tecnico di riferimento. Già allora ma soprattutto oggi non possiamo non prendere coscienza dell’errore tragico che abbiamo commesso non utilizzando lo straordinario rapporto di forza favorevole che avevamo a quel tempo per modificare il modello stesso. Mi riferisco non tanto al TMC, anche se parziali modifiche si potevano apportare riducendo e/o ampliando alcuni pagati, ma soprattutto alla tabella dei Fattori di Riposo, alle maggiorazioni per effetti stancanti vecchi e nuovi che il mutare dell’o.d.l. produceva e produce, l’ampliamento del lavoro notturno, le differenze di genere, le turnazioni, ecc.

Il risultato di tutte quelle esperienze è stato l’immobilismo, tutto si è fermato, salario legato all’incentivazione, paghe di posto, contrattazione di merito, formazione, studi e ricerche sul tema, saperi sindacali diffusi, tutto si è fermato e molto si è perso, e la responsabilità non è certo del padrone ma soltanto nostra del sindacato.

Anche se si potrebbe continuare e scrivere decine di pagine su questi aspetti mi fermo qui perché gli elementi politici essenziali del divenire dell’interpretazione dell’accordo 1971, quelli che servono  per l’economia del ragionamento sono stati questi, e maggiori dettagli sono già stati spiegati nei capitoli precedenti ed altri lo saranno in seguito.

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