Fiat Mirafiori – Corso Agnelli, 200

Tratto dal sito dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza

Nei progetti di Agnelli la nuova struttura sarebbe sorta alla periferia di Torino, sul terreno delle ex scuderie di Gualino (abbattute tra il 1935 e il 1936), lungo la strada di Stupinigi, e di altre piccole proprietà. Un territorio di prati, campi e cascine abbastanza vasto da non presentare problemi per futuri ingrandimenti, non urbanizzato (oltre alle scuderie gli altri edifici di qualche rilievo sono il vecchio ippodromo, l’aerostazione e il sanatorio) e sufficientemente dotato dal punto di vista delle infrastrutture stradali e ferroviarie. Un’area di oltre un milione di metri quadrati che avrebbe potuto ospitare circa 22.000 operai su due turni di lavoro.

Servire il paese sempre di più e meglio; dare sempre più lavoro alla nostra città, aumentare qualitativamente e quantitativamente la produzione al minor costo possibile”[PNF, 1939]. Con queste parole, contenute nell’opuscolo celebrativo della Rassegna provinciale Torino e l’autarchia tenutasi nel maggio-giugno del 1939 al Parco del Valentino, il senatore Giovanni Agnelli illustra gli scopi e le ragioni che l’hanno portato a varare quella che lo storico Castronovo definisce “l’eredità più significativa della sua attività industriale” [V. Castronovo, 1978]: il monumentale stabilimento della Fiat Mirafiori.

Quando nel settembre del 1936 il duce si trova davanti ad un progetto di tale portata nutre subito parecchie incertezze circa la sua approvazione, nonostante le rassicuranti parole di Agnelli che descrivono un Mussolini “che sempre guarda all’avvenire, e che si compiacque di approvare il progetto” [PNF, 1939]. In realtà le cose non sono così semplici come sembrano. Mussolini, fautore del decentramento nella localizzazione della produzione è infatti contrario alle politiche di accentramento di complessi industriali di vaste dimensioni in un solo luogo. Preferisce cioè una distribuzione geografica più equilibrata che non trascuri il Mezzogiorno e vada al di là del tradizionale triangolo settentrionale, estendendosi, ad esempio, “alla baraggia vercellese, ad alcune località a ridosso dell’appennino tosco emiliano” [V. Castronovo, 1978] o nella zona alpina a ridosso della Francia. Inoltre a far crescere i dubbi di Mussolini concorrono altri due fattori di ordine militare e politico, da lui ritenuti non secondari, e cioè la vulnerabilità della fabbrica in termini militari (ubicata a ridosso della città sarebbe stata un facile bersaglio per gli attacchi aerei) e, soprattutto, la difficoltà di controllare una massa operaia di così vaste proporzioni concentrata in un unico luogo di lavoro. Operai che continuano ad essere definiti dalle note informative del regime relative alla situazione politica a Torino come “comunisti e socialisti per convinzione” [V. Castronovo, 1978], aumentando così le preoccupazioni del duce.

Agnelli però non intende rinunciare al suo obiettivo e dopo essersi impegnato con i vertici del regime a costruire uno stabilimento per la riparazione di autoveicoli a Firenze, a potenziare il centro di distribuzione di Ancona e a dotare Siena ed Apuania di due opifici per la produzione di materie plastiche derivate dall’acetilene  riesce finalmente ad ottenere il via libera per la costruzione del nuovo stabilimento di Mirafiori.

Nella primavera del 1937, circa 5.000 operai immigrati dal Veneto e dalla Sicilia iniziano a lavorare alla realizzazione di questo grandioso complesso industriale progettato dall’ingegner Bonadé Bottino.

Una struttura che capovolge le logiche costruttive ed organizzative del Lingotto, fino ad allora considerato l’avanguardia della produzione Fiat, con un’impostazione che fa del funzionalismo “uno degli strumenti con cui affermare la rottura con le tradizioni costruttive e formali precedenti” [C. Olmo]. Infatti Mirafiori nasce proprio da esigenze di carattere funzionale che prevedono uno sviluppo della produzione e una riorganizzazione del ciclo produttivo attraverso un sistema che attenui il trasferimento all’esterno della fabbrica di “alcune attività legate alla differenziazione di mestiere” [V. Castronovo, 1978], incrementando invece un processo di progressiva specializzazione interna che anticipa, dove possibile, la sostituzione degli operai con le macchine, grazie ai perfezionamenti raggiunti nel lavoro in serie.

Una fabbrica disegnata quindi per rispondere pienamente alle esigenze delle lavorazioni, che trova proprio nello sviluppo delle linee su spazi orizzontali la soluzione migliore per realizzare gli incrementi della produzione attesi dalla Fiat.

L’impostazione della produzione su un solo livello permette infatti di sviluppare un criterio di razionalità che elimina i trasporti passivi di materiale, risparmia le energie delle maestranze e sancisce una netta divisione del lavoro, separando distintamente l’edificio degli uffici (noto come la palazzina) dai capannoni del lavoro industriale.

Uno stabilimento che sorge su una superficie coperta di circa 300.000 metri quadrati comprendenti un fabbricato per la lavorazione ed il montaggio di autovetture (200.000 metri quadrati), le officine per i motori di aviazione (30.000 metri quadrati) e gli spazi destinati alle fucine (9.000 metri quadrati), al parco ferri (9.000 metri quadrati) e alla centrale termoelettrica (6.000 metri quadrati).

Mirafiori si presenta quindi come una sorta di fabbrica modello e questo non solo per le innovazioni riguardanti il comparto produttivo, ma anche, e nell’immaginario del regime fascista soprattutto, per il progresso sociale legato agli ambienti di lavoro.

Parole come igiene, sicurezza e conforto fanno da sfondo a tutte le descrizioni delle caratteristiche della nuova struttura che può contare su un refettorio per 11.000 commensali lungo 560 metri e munito di scalda vivande e radio (voluto dallo stesso Mussolini secondo cui “l’operaio che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista” [in V. Castronovo, 1999]), vari refettori di reparto, ambulatori e servizi di assistenza sanitaria, spogliatoi con armadietti individuali, lavabi e docce, una rimessa per circa 10.000 biciclette e ricoveri antiaerei per la totalità dei presenti in fabbrica, tutti servizi che oltre ad attestare ed esaltare “il progresso sociale della nuova fabbrica” [L. Passerini, 1984], hanno anche la finalità di rafforzare nei dipendenti il senso di appartenenza a quella che Agnelli chiama “la nostra famiglia di lavoro” [PNF, 1939].

Ed è proprio nell’ottica dell’appartenere a “una grande comunità di lavoro e a un’aurea di benessere” [V. Castronovo, 1999], che la direzione Fiat costruisce su un’area di 270.000 metri quadrati attigua alle officine di Mirafiori “una nuova ed adeguata sede del dopolavoro aziendale Fiat” [PNF, 1939], comprensivo di un parco per auto e cicli di circa 3500 metri quadrati, di una “piscina scoperta di metri 30 per 50 con annessa spiaggia di 800 metri quadrati” [PNF, 1939], di un bocciodromo comprendente cento campi da gioco, di una pista di pattinaggio a rotelle, di uno spiazzo per il tiro con l’arco e di uno per quello con la carabina, campi da tennis, da pallacanestro, da palla a volo, di vari edifici con sale e salette di riunione e di “un locale per birreria e giuochi al coperto”[PNF, 1939].

Il 15 maggio del 1939 durante un viaggio ufficiale in Piemonte, Mussolini fa tappa a Torino per inaugurare quella che lui stesso ama definire la “fabbrica perfetta del tempo fascista” [V. Castronovo, 1999]: un’occasione voluta fortemente dal duce anche per incontrare personalmente gli operai cittadini, consapevole, come scrive Giovanni Ansaldo sulla Gazzetta del Popolo, che “la sua lotta non sarebbe mai stata compiutamente vinta finché non avesse conquistato a fondo, appieno e senza riserve, l’anima delle maestranze della Fiat” [in V. Castronovo, 1999].

La visita del dittatore ai reparti di Mirafiori passa però alla storia come un momento di rottura tra regime e lavoratori di eccezionale portata, che si distacca dalla quotidianità diventando quello che Luisa Passerini definisce un “simbolo della resistenza culturale” [L. Passerini, 1984].

D’altro canto i rapporti della Questura torinese al capo della polizia rivelano fin da subito la concreta possibilità che a Mussolini non sarebbe stata riservata un’accoglienza calorosa, non solo per il ricordo delle precedenti occasioni (l’ultima della quale vede il duce parlare nel 1932 ai lavoratori del Lingotto), ma soprattutto per il morale degli operai, fortemente provato dal continuo rincaro dei prezzi, dalle restrizioni alimentari e dal timore di una guerra sentita sempre più vicina.

Ed è proprio per prevenire atti pericolosi che prima dell’arrivo del duce, scatta a Torino un imponente piano di sicurezza che prevede l’adozione di scrupolose misure di prevenzione: il dispiegamento di numerosi agenti di polizia (da Roma sono appositamente inviate squadre di agenti con il compito di “integrare” la forza pubblica del capoluogo piemontese), l’arresto, cosa non nuova in simili circostanze, di tutti i possibili avversari del fascismo, e il controllo delle case degli inquilini situate nelle zone della città destinate ad accogliere i suoi discorsi o il suo semplice passaggio.

Ciononostante i preparativi per la visita di Mussolini allo stabilimento di Mirafiori sono grandiosi e oltre al partito e ai sindacati fascisti, è la stessa Fiat a farsi carico dell’organizzazione della manifestazione preparandola minuziosamente in ogni particolare, affinché l’evento venga ricordato come una radiosa giornata.

Il 14 maggio ai dipendenti delle varie sezioni Fiat è comunicato che l’indomani avrebbero dovuto recarsi a Mirafiori per presenziare all’inaugurazione dello stabilimento: ad ognuno di essi è consegnato un cartellino che il giorno dopo, come ricorda un’operaia, “si doveva andare a presentare a Mirafiori, chi non andava era assente.” [L. Passerini, 1984]

Così fin dalle prime ore del mattino del 15 maggio (la stessa operaia ricorda come “si doveva bollare quel cartellino prima delle otto” [L. Passerini, 1984]) le migliaia di dipendenti dell’azienda (operai ed impiegati) giungono a Mirafiori: schierati intorno alla pista a doppio otto per i collaudi (chiamata dai lavoratori l’amaca) lungo la fiancata dell’officina principale attendono per più di due ore sotto una pioggia battente l’arrivo di Mussolini. Al centro della pista campeggia una scritta Dux, mentre il palco dal quale il duce prende la parola si trova sotto un pilastro ornato da fasci e aquile romane e dall’iscrizione “Mussolini duce dell’Italia fascista fondatore dell’impero, inaugura la nuova Fiat presenti i suoi 50.000 lavoratori” [L. Passerini, 1984]. Una coreografia senza eguali, dalla fortissima valenza simbolica (il rapporto con la folla, con le masse, cui il fascismo ha sempre attribuito straordinaria importanza) ripresa anche dagli operatori dell’Istituto Luce, giunti a Torino per fare della cerimonia “un apposito documentario da proiettare nelle sale” [V. Castronovo, 1999].

Ad attendere Mussolini ci sono così, oltre ad Agnelli (in uniforme), Valletta e alle altre autorità, circa 50000 lavoratori con precise istruzioni circa la linea di condotta da tenere:”ci avevano detto che quando parlava…quando arrivava si doveva battere le mani, invece nessuno ha fatto niente di tutto questo.” [L. Passerini, 1984].

Infatti quando Mussolini, verso le dieci del mattino, fa la sua comparsa sul podio non riceve che pochi applausi e qualche acclamazione proveniente dalle prime file composte per la gran parte da impiegati e militanti di partito. Verso la fine del suo discorso, (iniziato con un retorico “camerati operai”), palesemente irritato per l’accaduto, afferma che la linea di condotta del regime verso le classi lavoratrici sarebbe stata quella già definita nel suo discorso di Milano del 6 ottobre 1934 (ovvero la promessa per gli operai di avere un lavoro garantito, un salario equo, una casa decorosa, la conoscenza del processo produttivo e la partecipazione alla sua disciplina) ma le sue parole non suscitano l’entusiasmo che si attende. Allora si rivolge ai presenti chiedendo se questi ricordino le parole dell’intervento milanese ma, secondo quanto si legge in una relazione di un graduato della Milizia Nazionale Fascista, “sui 50000 lavoratori presenti solo 400 di essi risposero si. Si vide allora il Duce seccato dire testualmente:”Se non lo ricordate rileggetelo”. E abbandonò il podio” [M. Tomatis, C. Ghigliano, 1999]. Solamente dopo un plateale invito di Storace ed Agnelli, Mussolini rivolge nuovamente un saluto alla folla prima di andarsene.

Questa versione dei fatti è ripetuta anche da una testimonianza raccolta da Luisa Passerini che conferma come alla domanda di Mussolini nessuno abbia risposto, “nessuno ha parlato, e allora ha detto “Se non vi ricordate, rileggetelo!” E poi scappava, e allora Agnelli lo prende per le spalle e lo invita ancora a salutare, ha fatto così (saluto romano) e poi è andato via, non ha più parlato” [L. Passerini, 1984]. L’episodio è riportato anche da La Stampa che, nell’edizione del giorno seguente a quello della visita, mette in luce “l’accoglienza fredda e limitata delle maestranze della Fiat, dove egli sarebbe stato calorosamente applaudito soltanto da un migliaio di operai, mentre il rimanente, circa 50 mila, sarebbero rimasti a braccia conserte” [in V. Castronovo, 1999].

Senza soffermarsi oltre sull’episodio è interessante notare come a quello che può essere definito un chiaro segno di antifascismo, gli organi ufficiali del fascismo diano una spiegazione che insiste quasi sempre su cause collaterali, frivole e riduttive, come ad esempio la pioggia e la lunga attesa. Ed è proprio questo che traspare nelle riflessioni di un graduato della Milizia Nazionale Fascista, secondo cui le cause scatenanti l’episodio non vanno fatte risalire al malcontento dei lavoratori dettato dalle difficoltà economiche e sociali ma piuttosto al fatto che fare “ammassare gli operai sotto la pioggia e farli attendere ore e ore in piedi l’arrivo del duce non predispone alla benevolenza un uditorio” [M. Tomatis, C. Ghigliano, 1999].

Pochi giorni dopo la visita di Mussolini, la Fiat inizia il trasferimento dei macchinari e del personale dal Lingotto al nuovo stabilimento di Mirafiori che diventa così operativo a tutti gli effetti ed è in grado, dopo l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, di fornire un contributo decisivo alla produzione bellica.

Infatti subito dopo la dichiarazione di guerra il regime dà ordine alla Fiat di concentrare le lavorazioni quasi esclusivamente su una produzione di guerra, vista la pochezza dei mezzi a disposizione delle forze armate italiane: circa 55.000 mezzi motorizzati e una dotazione di 1.600 carri armati, vale a dire solamente qualche cifra in più rispetto all’autunno del 1939.

Il complesso di Mirafiori è così attrezzato a far fronte alle nuove esigenze produttive: è ultimata la costruzione degli edifici destinati ad ospitare le officine avio, le fucine e le fonderie ed è accelerato il trasferimento dei macchinari ancora rimasti al Lingotto.

Provvedimenti “di guerra” sono presi anche per le maestranze dello stabilimento: la militarizzazione dei dipendenti, che li rende passibili anche sul luogo di lavoro dell’applicazione del codice militare, costringendoli di fatto a tollerare una rigida disciplina di fabbrica, il blocco dei salari e l’aumento dei ritmi di lavoro, che assumono “le stesse pesanti cadenze del periodo della prima guerra mondiale” [V. Castronovo, 1999].

Intanto le prime conseguenze della guerra arrivano anche a Mirafiori, sul quale cadono la notte tra l’11 e il 12 giugno del 1940 le prime bombe alleate: un’azione più che altro dimostrativa se si considera che delle 36 bombe da 500 libre, quasi nessuna arriva a centrare il bersaglio, provocando così danni assai limitati.

Nel corso del 1941, senza la minaccia dei bombardamenti nemici, il lavoro a Mirafiori prosegue senza sosta, tanto da far ritenere ai vertici Fiat di essere in grado di produrre (da questo e dagli altri complessi) in tre quattro mesi “3000 autocarri e camionette, 420 carri armati, 400 unità motorizzate, un centinaio di apparecchi e 400 grossi motori di aviazione.” [V. Castronovo, 1999].

Il passaggio a questa produzione di guerra avviene per Mirafiori non senza sforzi economici assai rilevanti, soprattutto per via delle modifiche di cui necessita lo stabilimento, all’interno del quale, secondo le parole di Agnelli pronunciate in una relazione agli azionisti del luglio 1941, “gli impianti hanno dovuto essere rettificati, sostituiti ed ampliati a seconda delle esigenze di maggiori e diverse produzioni raggiunte, e si sono dovute affrontare notevoli spese” [in V. Castronovo, 1999]: tra luglio e novembre la Fiat stanzia dei fondi straordinari del valore di circa 550 milioni, un quinto dei quali è destinato proprio a Mirafiori.

La produzione subisce una brusca frenata a partire dall’inverno del 1942, allorché gli edifici della fabbrica sono nuovamente oggetto delle incursioni aeree anglo americane, che però questa volta lasciano decisamente il segno. Tra novembre e dicembre (il 18 e 20 novembre e l’8 di dicembre) una notevole quantità di bombe è sganciata sullo stabilimento danneggiando pesantemente la struttura e i macchinari: le parti notevolmente sinistrate sono pari ad una superficie di circa 110000 metri quadrati, senza contare i danni subiti dalle attrezzature, dagli impianti e dalla palazzina degli uffici, dove nel rogo provocato da due bombe da 4000 libbre l’una, “vanno persi anche importanti documenti relativi all’impostazione dei programmi di produzione” [V. Castronovo, 1978].

Le dure condizioni lavorative, l’aumento del costo della vita al quale non corrisponde un adeguamento dei salari, e soprattutto la decisione del regime di introdurre il pagamento di 192 ore, pari ad una mensilità salariale, come indennità straordinaria per i lavoratori sfollati (lasciando fuori dal provvedimento quelli non sfollati) portano i dipendenti di Mirafiori a lanciare quella che può essere definita la prima grande sfida politica al fascismo. Si tratta degli scioperi del marzo del 1943 che da qui si estendono in tutte le altre industrie cittadine, evidenziando la centralità e il ruolo di guida degli operai di questa fabbrica sul resto del proletariato torinese.

Una prima agitazione programmata per il primo di marzo non va a buon fine; l’iniziativa si ripete il mattino del 5 marzo, quando si fermano tre officine ausiliarie (18,19,20) e la scuola allievi, senza però coinvolgere tutto lo stabilimento, che pochi giorni dopo, l’8 di marzo, entra totalmente in sciopero, sospendendo le lavorazioni fino al giorno 18.

Pur senza fornire una cronaca dettagliata degli avvenimenti, non si può non ricordare la compattezza delle maestranze durante i giorni delle agitazioni: operai, donne e giovani della scuola allievi collaborano attivamente per la riuscita della fermata.

L’operaio Gallea assegnato all’officina 30 ricorda ad esempio come lo sciopero “ebbe inizio nel refettorio dopo la pausa della refezione di mezzogiorno. Mi fece impressione la compattezza degli operai. Era suonata la campanella per la ripresa del lavoro e noi eravamo seduti ai tavoli e malgrado le esortazioni dei capi che passando nella corsia incitavano a riprendere il lavoro, nessuno si muoveva” [D. Antoniello, 1998]. Sulla coesione e sul ruolo delle donne, come sempre decisivo, fa invece leva la testimonianza di Anna Anselmo, operaia trasferita a Mirafiori dal Lingotto, che ricorda come “noi donne ci spostammo a mangiare a metà del refettorio, poi ci diedero l’ordine di spostarci verso l’ingresso, lasciando al fondo del locale gli uomini che erano più esposti all’arresto  Scendemmo per prime recandoci davanti alla palazzina degli uffici e gridando che volevamo pane, l’aumento del salario eccetera. Dietro una gran porta a vetri stazionavano fascisti e poliziotti. Ci volarono addosso e ci tempestarono di colpi”[G.Alasia, G.Carcano, M. Giovana, 1983]. La reazione fascista si abbatte pesantemente anche sui giovani della scuola allievi, circa 210 ragazzi posizionati in un reparto isolato dal resto della fabbrica, che partecipano alle agitazioni e che, usciti dal refettorio, si trovano davanti a un plotone di militari comandato da un ufficiale superiore che ordina di tornare al lavoro. Giuseppe Pensati, allora allievo Fiat ricorda che “eravamo una ventina di giovanotti, strafottenti. Il che lo indispettì. Fece schierare i soldati e lanciò un ultimatum. Non immaginavamo che attuasse davvero la minaccia, invece sparò e un nostro compagno cadde colpito da una pallottola di moschetto, e poi lo abbiamo sollevato e portato in infermeria” [G.Alasia, G.Carcano, M. Giovana, 1983].

Alla fine delle agitazioni gli operai di Mirafiori vedono accolte le loro principali rivendicazioni economiche, non senza subire la repressione fascista: secondo i dati raccolti da Valerio Castronovo sono 87 i lavoratori dello stabilimento arrestati all’indomani degli scioperi (in gran parte comunisti) e deferiti al Tribunale speciale con l’accusa di aver dato vita “ad un movimento sedizioso inscenato con pretesti di miglioramenti economici e ispirato ai principi di disordine auspicati dai nemici del regime”[in V. Castronovo, 1999].

Le agitazioni operaie a Mirafiori continuano anche nei mesi successivi. Focolai di protesta si hanno tre settimane dopo la caduta di Mussolini, nell’estate del 1943 (precisamente il 27, 28 luglio e il 19 agosto), quando i lavoratori, chiedendo la fine della guerra (resa dolorosa dai bombardamenti che si abbattono su Torino sempre più frequentemente), la rottura dei rapporti con la Germania e la liquidazione del fascismo, bloccano completamente la produzione. Altre fermate si hanno dopo l’occupazione tedesca e la costituzione della Repubblica di Salò, nei mesi di novembre e di dicembre. Spinti dal peggioramento delle condizioni di vita, dalle pesanti condizioni lavorative, dalla difficoltà di reperimento dei generi alimentari e da una guerra che si fa sempre più pressante, il pomeriggio del 15 novembre, inizia dall’officina 17 una protesta che dilaga, nei giorni successivi negli altri reparti: il 17 novembre tutti i quadri della fabbrica (operai, tecnici e impiegati) si astengono dal lavoro.

Lo sciopero, nonostante le “concessioni di alcuni miglioramenti salariali e le promesse dell’Unione sindacale fascista” [V. Castronovo, 1999] riprende il 24 novembre e il primo di dicembre, terminando solo dopo l’intervento del generale delle SS. Zimmermann che in un bando reso pubblico sul giornale La Stampa minaccia “pesanti rappresaglie contro tutti gli elementi ostili all’Autorità dello Stato e soprattutto contro i perturbatori dell’ordine e contro chi diserta il lavoro” [in V. Castronovo, 1999].

I mesi di novembre e di dicembre del 1943 si distinguono anche per la ripresa delle incursioni alleate che colpiscono la fabbrica di Mirafiori per due volte, l’8 novembre e il primo di dicembre. Secondo quanto traspare da un indennizzo dei danni di guerra redatto dalla direzione della Fiat, questi bombardamenti hanno avuto pesanti ripercussioni sull’attività dello stabilimento, visto che, durante dette incursioni, “bombe dirompenti e spezzoni incendiari danneggiarono, distrussero o resero inservibili le varie attrezzature, gli impianti, le materie prime, le merci in lavorazione, i materiali e i prodotti finiti presenti nei diversi reparti e locali sinistrati” [Intendenza di Finanza, Reparto VI, Danni di Guerra, Cartella N° 3398, fascicolo Fiat sezione Mirafiori].

Nei primi mesi del 1944 le autorità tedesche rendono noto che i programmi da loro stilati prevedono per la Fiat un sensibile aumento degli indici produttivi rispetto a quelli del 1943. In sostanza la crescita riguarda tutti i comparti addetti alle lavorazioni belliche visto che i tedeschi si aspettano un incremento nella produzione di carri armati, autocarri militari, unità motorizzate, aeroplani e perfino di motori. In questo senso un ruolo di primaria importanza avrebbe dovuto ricoprirlo proprio lo stabilimento di Mirafiori che con i suoi 16500 dipendenti rappresenta il fiore all’occhiello dell’azienda torinese. Le aspettative germaniche sono però ben presto disattese. Infatti proprio nel 1944 si costituiscono all’interno della fabbrica per iniziativa dei partiti antifascisti le prime cellule di azione clandestina (le Sap) collegate con il movimento partigiano e responsabili di agire all’interno dei reparti svolgendo attività antifasciste (come, ad esempio, la diffusione di materiale di propaganda, volantini e pubblicazioni clandestine) e, soprattutto, sabotando la produzione.

Da una lettura dei verbali del Cln di Mirafiori (attivo dal 20 ottobre del 1944) si intuisce facilmente, vista la gran quantità di episodi riportati, che questa sia una pratica attuata da gran parte degli operai. E’ il caso, ad esempio, del tracciatore utensileria Mario R., che in una lettera datata 14 febbraio 1946 ed inviata allo stesso Cln ricorda come venuto a conoscenza “della volontà dei tedeschi di portare in Germania i macchinari, organizzai il sabotaggio degli stessi facendoli smontare in parte in modo da fare constatare maggior danno ed occultandone le parti ed anche certe macchine, asportandole in altre zone” [CLN aziendali E/77/B], o ancora del capo collaudo lavorazione meccanica dell’officina 19, Angelo F., che tra le righe di una corrispondenza inviata al Cln dopo la fine della guerra ripete molte volte come “in officina si organizzavano azioni di sabotaggio contro i tedeschi” [CLN aziendali E/77/B].

Un aggiustatore meccanico dell’officina 30, deputata dalle disposizioni tedesche a fabbricare parti per aerei, ricorda come l’ordine di ostacolare la produzione è comunicato agli operai attraverso “volantini che si affiggevano sulle pareti esterne dei gabinetti, il luogo più frequentato in quel periodo, visto che la parola d’ordine di sabotare la produzione veniva messa in pratica e quindi le soste nei gabinetti aumentavano sempre più” [D. Antoniello, 1998]. Queste testimonianze evidenziano come la sistematica interruzione del ciclo lavorativo, diventi tra i lavoratori di Mirafiori un’abituale forma di resistenza che permette un rallentamento della produzione facendola girare su cifre assai lontane da quelle previste dai tedeschi, che, insieme al governo di Salò, ritengono responsabili anche i vertici della Fiat per il ripetersi delle lacune legate alla fornitura del materiale bellico (prodotto in quantità minori rispetto a quelle da loro previste), accusandoli, come riportato in una relazione del capo fascista della Provincia Zerbino di lavorare “di abilità per rendere la protezione economico-militare un alibi alla concreta opera di sabotaggio e di ostruzionismo” [in V. Castronovo, 1978].

L’analisi dei verbali del Cln aziendale fa inoltre emergere altrettanto chiaramente come la collaborazione con le forze antifasciste da parte dei lavoratori non si fermi al solo boicottaggio delle lavorazioni, ma arrivi anche alla concessione di aiuti diretti come ad esempio la fornitura clandestina di “materiale di ricambio per vetture e carri ai partigiani che avevano gli automezzi fermi per guasti” [CLN aziendali E/77/B].

Nel corso del 1944 non si fermano nemmeno le agitazioni operaie: il primo marzo i lavoratori partecipano allo sciopero generale cittadino (che i vertici di Mirafiori definiscono “a carattere prevalentemente politico” [Archivio Storico Fiat]) e incrociano le braccia per un’intera settimana rivendicando un aumento delle retribuzioni e del carovita e un miglioramento delle razioni alimentari; pochi giorni dopo ricomincia anche l’attività dei bombardieri anglo americani che il 24 marzo riprendono a sganciare sullo stabilimento bombe e spezzoni incendiari.

Nel mese di maggio del 1944, in previsione di un progressivo spostamento della linea del fronte verso nord, le autorità germaniche danno l’ordine di trasferire in Germania tutti i macchinari industriali “utili alla macchina bellica tedesca” [V. Castronovo, 1999]. Per la Fiat Mirafiori queste parole significano il trasloco dell’officina 17 (quella dei motori avio) in alcune gallerie scavate nella zona del Garda, vicina all’Alto Adige (annesso alla Germania nazista), un luogo ritenuto dai tedeschi estremamente sicuro.

L’11 giugno del 1944 l’ordine di trasferimento è comunicato a Valletta che dà il suo assenso senza obiezioni. Venuti a conoscenza del progetto tedesco, la mattina del 16 giugno, gli operai dell’officina 17 sospendono il lavoro senza riprenderlo nemmeno dopo l’irruzione nello stabilimento di un gruppo di soldati tedeschi.

Il 21 di giugno il comando tedesco raduna nel piazzale di fronte alla palazzina degli uffici tutti i quadri di Mirafiori (dai capisquadra ai tecnici, fino ad Agnelli e Valletta) intimando loro di eseguire scrupolosamente gli ordini delle autorità del Reich.

Lo stesso giorno, in seguito al ripetersi delle proteste dei lavoratori contro il trasferimento coatto in Germania di uomini e mezzi, la Prefettura di Torino decreta la serrata dello stabilimento a tempo indeterminato, ordine che sarà revocato dalle autorità tedesche il giorno 26.

Il 22 di giugno, Mirafiori è oggetto di un ennesimo bombardamento alleato che colpisce, con estrema precisione, proprio l’officina 17 distruggendo letteralmente sia le strutture murarie che molti macchinari, costringendo, di fatto, i tedeschi ad abbandonare il proposito del trasloco. L’obiettivo dell’incursione e soprattutto la data, non casuale vista la coincidenza con il primo giorno di serrata dello stabilimento e con l’assenza delle maestranze impegnate nella prosecuzione dello sciopero, farebbe pensare ad una sorta di attacco programmato. In questo senso, sembrano coincidere sia le testimonianze raccolte alla fine della guerra tra gli esponenti del Cln aziendale, sia i rapporti delle autorità fasciste che il 24 giugno accusano la direzione della Fiat “di aver fomentato ad arte l’agitazione per intralciare il trasferimento delle attrezzature in Germania” [V. Castronovo, 1978]. Una affermazione altrettanto attendibile è infine quella riportata dalla commissione di epurazione del Cln relativa agli interrogatori del 28 agosto del 1945: alla domanda se Valletta “fosse in relazione con gli alleati per richiedere bombardamenti, il funzionario Fiat Rognetta aveva risposto che i bombardamenti furono richiesti dalla Franchi ma che la direzione Fiat non ne era al corrente.” [V. Castronovo, 1978].

Nel novembre del 1944 la Fiat, che si trova in condizioni economiche molto precarie (tanto che secondo Valletta il fatturato complessivo non copre “nemmeno una parte dell’importo dei salari e degli stipendi” [V. Castronovo, 1999]) riceve dall’esercito tedesco un’ordinazione per la costruzione di camion, carri armati e veicoli militari. Il 20 novembre è lo stesso Valletta a comunicare la notizia agli operai di Mirafiori, informandoli anche che l’assegnazione di queste commesse comporterà, per loro, un aumento di otto ore del normale orario lavorativo settimanale. La risposta delle maestranze è però compatta ed il pomeriggio dello stesso giorno tutte le attività della fabbrica sono bloccate; l’azione costringe il capo della Provincia ad imporre la serrata dello stabilimento per otto giorni, mentre le autorità nazifasciste procedono all’arresto di “1.350 lavoratori, tra operai e impiegati” [V. Castronovo, 1999] nei soli complessi di Lingotto e di Mirafiori.

E’ in questo clima di estrema tensione che si arriva all’aprile del 1945. Il 18 aprile Mirafiori partecipa allo sciopero generale indetto dal Cln, ma i lavoratori sono costretti a rimanere chiusi tra i cancelli della fabbrica, bloccata all’esterno da carri armati fascisti. Ma oramai l’insurrezione generale è vicina.

La notte del 25 aprile gli operai ricevono dal Cln l’ordine di occupare il giorno successivo l’intero stabilimento. La mattina del 26 aprile il Cln di fabbrica in quanto “emanazione legittima del Cln piemontese” [V. Castronovo, 1999], ha il pieno controllo di Mirafiori e provvede insieme ai nuclei interni di sappisti ad approntare le barricate “per impedire eventuali ingressi di forze corazzate nemiche, a selezionare gli operai cui affidare le poche armi” D. Antoniello, 1998] e a dare l’ordine di riprendere il lavoro a tutti “i lavoratori non impiegati nelle squadre armate per poter produrre automezzi da consegnare alle formazioni partigiane che affluivano nella città e che ne abbisognavano”. [CLN aziendali E/77/B]

Nel pomeriggio dello stesso giorno, dopo aver requisito le scorte dei viveri e delle materie prime, il Cln dirama un comunicato con il quale mobilita a favore della causa insurrezionale “tutti i dipendenti della Fiat Mirafiori, fatta eccezione per le donne e gli uomini superiori ai cinquantanni di età” [in V. Castronovo, 1999].

Così, circa 800 operai armati alla meglio si apprestano a difendere quello, che in una relazione del 17 settembre 1945, lo stesso Cln aziendale definisce “il nostro già abbastanza distrutto o predato patrimonio industriale” [CLN aziendali E/77/B].

La partecipazione delle maestranze alla causa della liberazione sembra essere molto attiva e compatta se è vero che, come ricorda Giovanni Cavallo (Giani), un sappista presente in quei giorni, “pochi operai avevano chiesto verso sera il permesso di tornare a casa, molti si apprestarono qualche giaciglio di fortuna per passare in fabbrica la notte” [D. Antoniello, 1998].

Ed è proprio verso sera, dopo le prime avvisaglie del pomeriggio (alle 15,00, quando i tedeschi, con un cannone semovente sparano “sessanta colpi sullo stabilimento provocando danni lievi” [G. Padovani, 1979] e alle 18,00, quando un secondo attacco costa la vita ad un partigiano che “con la sua arma tiene testa al nemico” [G. Padovani, 1979]) che iniziano i combattimenti più violenti. Verso le 19,30, una colonna di mezzi corazzati tedeschi, coadiuvata da forze di fanteria auto trasportate, transita davanti alla palazzina degli uffici e apre il fuoco contro l’edificio colpendo a morte due partigiani appostati di guardia sui tetti del fabbricato. Dallo stabile della centrale termica gli operai rispondono al fuoco colpendo uno dei carri armati e mettendo in fuga il resto della colonna con un cannoncino posizionato davanti alla porta d’ingresso. Soltanto che, come traspare dalla testimonianza del capo squadra sappista Domenico Lopizzo, il cannoncino “l’avevamo requisito ai repubblichini al campo sportivo Fiat ed era senza munizioni. Infatti dopo aver colpito il carro armato i tedeschi si impaurirono talmente pensando: se appena arrivati incominciano a farne fuori uno, figurati l’armamento che hanno lì dentro! Non sapevano. Noi avevamo appena due bombette a mano e qualche moschetto…” [D. Antoniello, 1998].

Il giorno successivo, iniziano ad arrivare dall’esterno le notizie della certa vittoria insurrezionale e il 28 aprile gli operai di Mirafiori possono festeggiare la ritrovata libertà. Il racconto del primo momento di festa è ancora affidato alle parole di Lopizzo che ricorda come con i suoi uomini “prendemmo un pezzo di lamiera, lo forammo con la pistola e, finiti i momenti bui, facemmo una pastasciutta tutti insieme” [D. Antoniello, 1998].

La ritrovata pace restituisce allo stabilimento la produzione civile e dalle linee di Mirafiori escono, tra il 1946 e il 1947, gli ultimi modelli della Fiat Topolino, seguiti da quelli della “1100 E, 1100 B, 500 B, 1500 D, 1400” [M. Lupo, 1985]. Successivamente, negli anni ’50, sono realizzate a Mirafiori le vetture simbolo del miracolo economico, come la 600 e la Nuova 500, seguite, negli anni successivi, da altri fortunati modelli come la 850, la 124, la 127 e la 131 “Mirafiori”.

Tra il 1956 e il 1958 la Fiat procede al raddoppio della superficie di questo impianto che non solo rappresenta la maggiore forza produttiva industriale nel miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta (con la motorizzazione di massa), ma diventerà, negli anni Settanta, ancora una volta, la fabbrica simbolo delle lotte operaie.


Fonti citate

Archivio:
Archivio storico Fiat, Danni di guerra, fascicolo 9;
Archivio di Stato di Torino, Intendenza di Finanza, Reparto VI, Danni di Guerra, Cartella N° 3398, fascicolo Fiat sezione Mirafiori;
Archivio Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Verbali dei CLN aziendali E/77/B;
Bibliografia essenziale:
V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Utet, Torino, 1978, [p. 550; 551;552;555; 609; 614; 649; 650; 653];
V. Castronovo, Fiat 1899-1999: un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano, 1999, [p. 560; 561; 562; 563; 564; 586; 591; 595; 632; 633; 648; 665;666; 687];
C. Olmo, Dal Lingotto a Mirafiori: la formazione di una città discontinua, in Storia illustrata di Torino, vol. VII, Torino dal fascismo alla repubblica, a cura di V. Castronovo, Milano, Sellino, [p. 1970];
L. Passerini, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Laterza, Bari, 1984, [p. 226; 227; 239];
G.Alasia, G.Carcano, M. Giovana, Un giorno del ’43. La classe operaia sciopera, Gruppo Editoriale Piemonte, Torino, 1983; [p.109; 165];
D. Antoniello, Da Mirafiori alla S.A.L.L. Una storia operaia, Jaca book editore, Milano, 1998; [p. 32; 37; 52; 53; 54];
M. Tomatis, C. Ghigliano, Io c’ero: cento anni di Fiat e dintorni, Edizioni Ex Machina, Torino, 1999; [p.51];
G. Padovani, La liberazione di Torino, Sperling & Kupper Editori, Milano, 1979; [p.168];
Archivio Storico Fiat, Le relazioni industriali alla Fiat 1944-1956, vol I, [p. 13];
Archivio Storico Fiat, Fiat: le fasi della crescita. Tempi e cifre dello sviluppo aziendale, a cura, Scriptorium, Torino, 1996;
M. Lupo, I secoli di Mirafiori, Edizioni Piemonte in Bancarella, Torino, 1985 [p.104];
Rassegna provinciale Torino e l’autarchia, Torino, Parco del Valentino, maggio-giugno XVII”, pubblicato a cura dell’Ufficio stampa dei fasci di combattimento torinesi, Torino, 1939.

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