I lavoratori studenti. Testimonianze raccolte a Torino
FRENO E SPUNTO LE LANCE DELLA PERSECUZIONE (Intervista aprile 1969)
Ho venticinque anni, nato a Torino, ma mio padre è toscano e mia madre friulana.
Ho frequentato due anni dell’istituto professionale G. Galilei, e poi ho lavorato saltuariamente, date le necessità, alla Laminati Trafilati in via Egeo e in un’altra fabbrica vicino a Santa Rita. Per incompatibilità di carattere con i datori di lavoro, i lavori miei sono stati saltuari sino al servizio militare.
Dopo il servizio militare ho continuato la tradizione di famiglia. Dato che mio padre, ora in pensione, è stato dipendente Fiat per trentacinque anni in Ferriera, ho manifestato il desiderio di continuare in quell’ambiente, perché lo ritenevo valido, sotto diversi punti di vista, e ho fatto domanda alla Fiat. Questa è stata accettata, e dato che avevo frequentato i due anni d’istituto professionale, più i tre anni precedenti di avviamento al lavoro, ho eseguito il capolavoro di aggiustatore e l’hanno trovato imperfetto, se non errato, e invece di assumermi come operaio di seconda, mi hanno assunto come operaio di terza, dicendomi che «se avevo lana da filare, quando ero all’interno potevo filare».
Mi hanno mandato alla Produzioni Ausiliarie, che è la sezione migliore della Fiat, dove si eseguono i lavori di più alta specializzazione meccanica, specialmente per quello che riguarda il servizio auto. All’inizio il lavoro è stato molto interessante, mi piaceva (il lavoro mi piace tuttora, potessi ancora farlo). Mi hanno mandato in una squadra di aggiustatori attrezzisti. Il lavoro proseguiva con impegno da parte mia, perché mi interessava apprendere quel lavoro che ritenevo molto importante e di alta specializzazione.
soltanto che con il passare del tempo, sopravvenuti alcuni scioperi, specialmente per le pensioni e per alcune rivendicazioni sindacali, mi sono messo in quella luce che fa parte del mio carattere, che loro non accettano. E allora sono cominciate le rappresaglie. Non solo per il fatto che ho fatto sciopero, ma io ho un carattere per cui non riesco a frenare la lingua. Quandovi sono discussioni nell’ambiente di lavoro, io mi scaldo piuttosto e di conseguenza vi sono le ripercussioni, che vanno dal crumiro al capofficina e fanno tutta la trafila.
Conseguenza di queste mie azioni sono i miei vari trasferimenti. Prima c’è stato solo la trasferta, cioè andare a lavorare per un certo periodo in un’altra sezione, per mancanza di lavoro alle Ausiliarie, e poi ritornare quando il lavoro fosse ritornato.
Queste trasferte una volta sono durate quattro settimane, l’ultima volta sono durate cinque mesi. Logicamente andando in trasferta si facevano dei lavori di alta specializzazione, quali messa a punto di macchine utensili, manutenzione di macchinari nuovi: tutti lavori che come minimo richiedono la seconda, se non la prima categoria, perché io andavo in compagnia di un operaio di prima, e quello che non faceva lui, facevo io. I compiti ce li dividevamo.
Tutto questo alla direzione non interessava, perché parlare di avanzamento di categoria e di miglioramenti salariali è assolutamente nebbia su tutto il fronte.
Un caso particolare è quando mi hanno trasferito, durante gli scioperi di marzo, a Mirafiori per mettere a punto delle macchine nuove che aveva costruito la Sigmat. macchine che erano completamente errate sia dal punto di vista di progettazione che di esecuzione. Difetti notevoli. Avevano messo me e altri due operai alle dipendenze dell’ufficio manutenzione macchine utensili, dell’ufficio progetti dell’officina 33.
Ci han dato in mano queste quattro macchine e ci hanno detto: fate quello che dovete fare. Hanno messo un impiegato di prima a dirigerci e abbiamo iniziato il lavoro. Smontato le macchine, ecc., ecc., guardati i disegni, verificato che la macchina era completamente sbagliata, a_ spettavamo l’illuminata guida di una parte di questi impiegati di prima, di questi capi, che invece erano assolutamente incapaci di assolvere alle loro funzioni.
Io e un amico mio (lui era di seconda e io continuavo a rimanere di terza) abbiamo smontato le macchine, abbiamo rifatto gli schizzi, ci siamo assunti delle responsabilità di varie azioni all’interno della macchina, e dopo tre o quattro mesi, queste quattro macchine che erano inservibili ‑ che non riuscivano a lavorare, a andare in produzione ‑ (ogni tanto saltava fuori qualche piccolo difetto, ma non era colpa nostra; era colpa della impossibilità di rendere la messa a punto perfetta), ora, dopo un anno e mezzo, continuano a lavorare grazie al lavoro mio e dell’amico mio.
Come premio di tutta questa mole di lavoro che si è svolto attraverso quattro mesi, dopo i grandi scioperi di marzo alla Fiat che hanno avuto un notevole successo (io continuavo a fare gli scioperi alla Meccanica 2 di Mirafiori dove ero trasferito), andando avanti nel tempo, finita la messa a punto delle macchine, arriva un bigliettino nello sgabuzzino, di presentarsi alla Palazzina dal signor tal dei tali. Abbiamo detto: ci sarà il premio. Parlavano tutti di premio per il bel lavoro che avevamo fatto. Ma il premio per me è stato di essere trasferito in produzione, cioè a lavorare in linea; invece l’amico mio, che non era delle mie idee, aveva un comportamento diverso dal mio (suo padre era un guardione della Fiat) l’hanno rimandato alle Ausiliarie ove lavora ancora adesso, e ogni tanto l’incontro. Non gliel’ho chiesto, ma penso che non abbiano dato neppure a lui il premio: non è della Fiat dare premi per un lavoro ben eseguito. Se uno esegue bene il proprio lavoro, fa il proprio dovere; e se non lo fa, arriva la multa.
Cosi è sfumata la possibilità di apprendere quel mestiere che io ritenevo importante, di aggiustatore attrezzista, e pure quella di continuare in qualsiasi carriera nell’ambito degli aggiustatori specializzati, e sono piombato nell’eterna terza categoria della manovalanza generica. Non dico queste cose per degradare un determinato tipo di lavoro, assolutamente.
Adesso lavoro in linea al cambio della 5oo, piego due coppiglie. metto due braccetti, cinquemila in tutte le otto ore. Alla luce di tutto questo, i due anni di istituto professionale e le varie esperienze sia nel campo professionale sia in altro, non sono serviti a niente, perché costringono un operaio a finire li dentro.
Inizialmente, io penso, hanno adottato questo comportamento verso di me per incutermi timore. Sarebbe bastato che io pregassi un po’ un caporeparto, un capofficina, perché io potessi ritornare o all’ambiente delle Ausiliarie o fare la carriera impiegatizia, perché nel frattempo, studiando di sera, avevo preso il diploma da geometra.
Due anni fa ho iniziato lo studio del primo triennio dell’istituto tecnico in un anno solo. E dato che sono stato promosso, l’anno dopo ho fatto in un anno il biennio di quarta e quinta. Ero iscritto all’istituto privato Paola in corso Rosselli, di fronte al Mauriziano. L’istituto, di per se stesso, non è né bene né male, è come tutti gli altri istituti privati, almeno per quello che ho sentito in giro e ho visto. L’ambiente dei professori era alquanto scadente, non tanto per la conoscenza tecnica o la preparazione all’insegnamento, ma più che altro per l’ideologia di quasi tutti i professori. Il professore di storia era fascista; il professore di topografia era di destra; la professoressa di italiano non sapeva barcamenarsi né da una parte né dall’altra; il professore di diritto era invece un socialista, nel primo anno.
Per l’insegnamento non c’è nulla da ridire; erano come tutti gli altri professori. La scuola italiana è quella che è, dà nozioni informative, ci preparavamo per gli esami di idoneità e di abilitazione; ma come formazione sociale, culturale, la nostra scuola è piuttosto scadente. La cultura un ragazzo all’età di ventidue, ventitré anni, secondo me, se la fa sulla strada o sui libri; la scuola attualmente non è in grado di dargliela. Speriamo che con le attuali lotte e rivendicazioni si possa ottenere qualcosa.
Nel primo anno di triennio con l’accumularsi delle materie per le quali dovevo appunto studiare il programma di tre anni, la mole di lavoro era enorme. Agli esami a giugno mi sono andate bene tutte le materie umanistiche e mi sono andate male le scientifiche; per le prime avevo una preparazione, perché mi ricordavo qualche cosa dell’avviamento professionale e per le mie letture e le mie ricerche fino a ventidue, ventitré anni; per le altre invece, come matematica, analitica, diritto, per me nuove, ho faticato un po’ di più, sono stato rimandato a settembre, ma poi sono stato promosso.
Pagavo 20 000 lire al mese alla scuola privata, oltre 10.000 lire di riscaldamento e 10.000 di iscrizione. Facciamo un conto globale: tra i libri, i mesi di permesso che ho dovuto chiedere per dare gli esami e per prepararmi, in due anni ho speso circa un milione, calcolando che ho perso quattro mesi di lavoro che da soli fanno 400 000 lire. E mi ritengo fortunato di aver superato i cinque anni in due, mentre ci sono amici miei che hanno iniziato il corso con me, che non sono riusciti ad avere l’idoneità alla quarta, non perché fossero meno intelligenti di me, ma hanno avuto meno fortuna. Con quella enormità di materie io sono stato fortunato, mi hanno interrogato su determinati periodi e questioni di letteratura o di diritto che io conoscevo. Cosi amici miei hanno buttato via il milione senza riuscire ad arrivare a qualcosa di concreto.
il biennio di quarta e quinta, essendo diminuite le materie, limitate a quelle tecniche, e italiano e storia, mi ha permesso di dedicarmi maggiormente a ogni materia soprattutto tecnica, riservandomi per l’italiano solo alla preparazione del tema scritto.
Negli istituti privati viene sistematicamente tralasciato lo studio profondo della letteratura, della storia, la conoscenza del mondo moderno e dei vari problemi, quando sono sorti, come sono sorti e perché ci sono; vi si valorizza solo l’insegnamento delle materie tecniche e professionali. Purtroppo non è un metodo sbagliato al cento per cento, perché l’istituto privato in fondo dovrebbe preparare il geometra, che, anche se è ignorante, deve saper costruire la casa.
Adesso sono geometra e… abbiamo fatti i grandi passi e le grandi scalate sociali! Personalmente non ci tengo, né che mi chiamino geometra; anzi mi arrabbio, perché non ritengo validi determinati attributi più che altro perché provengono da una fortuna, come ripeto. Come li ho dati io prima della riforma, gli esami sono stati una stupidaggine: tutta una mole di materie che se io avessi dovuto avere una conoscenza approfondita di tutte quante, sarei un genio, non un geometra.
Ho scelto l’istituto tecnico da geometra unicamente perché si poteva fare in due anni; ho scelto la strada più breve. Non mi interessa avere il diploma; mi interessava per mio padre, per i sacrifici che lui aveva fatto per tutta la vita nei miei riguardi ed è mio dovere dare determinate soddisfazioni ai genitori. Devo ammettere che mi sono impegnato; non sono mai stato assente una sera dalle lezioni durante tutti e due gli anni e la Fiat mi ha concesso di fare sempre il turno di mattina.
Cioè, facevo il turno normale, quando ero alle Ausiliarie, dalle 8 alle 17, 15; alle 19 andavo a scuola e alle 23,30 uscivo. Poi durante la notte mi preparavo per le materie del giorno dopo o per ripassare per non accumulare tutto alla fine dell’anno. Quando dovetti dare gli esami di Stato ‑ e qui ci riallacciamo al problema dell’ambito del lavoro ‑ mi hanno trasferito in produzione, dopo gli scioperi del marzo‑aprile. Gli esami erano a luglio, a maggio avevamo finito le macchine; due mesi prima di iniziare gli esami mi hanno trasferito in produzione. Al che vi erano da fare i turni. Ho cominciato col fare sempre la mattina; per far di mattina a Mirafiori, vuol dire alzarsi alle 4,50, prendere il tram alle 5,25 e essere in fabbrica alle 5,45, e bollare alle 6. Questa è la prassi; ogni operaio purtroppo la conosce.
Tutto questo porta a uno scombussolamento, perché al pomeriggio non si ha tempo di dormire, arrivando a casa alle 15, né di riposarsi a fondo. Quindi si entra a scuola completamente frastornati. Se si dorme fino alle 20‑21, perdendo per ipotesi le prime due ore di scuola, non conviene, anche se c’è gente che qualche volta lo fa. E poi fino a mezzanotte non ci si addormenta più. Sono orari completamente inadatti per andare a scuola, ma questa è l’unica concessione valida della Fiat, che tutti preferiscono: cioè o lavorare di notte o fare la mattina. Il turno del pomeriggio, dalle 14 alle 23, è assurdo perché non permette assolutamente di frequentare nessun istituto.
Ce ti istituti, come anche il Paola, promettono ai nuovi iscritti di alternare i professori e le materie, cioè di fare una settimana il pomeriggio, una settimana la mattina, secondo i turni della fabbrica; ma tutto questo è pura teoria. In pratica non si può fare, per quanto ho sentito dire.
Trasferendomi sul lavoro in produzione, mi hanno colpito proprio nei due mesi prima degli esami. Ho fatto un mese la vita in produzione. Bisogna spiegare a questo punto cos’è la produzione, perché forse qualcuno non lo sa. Io montavo il ponte del 125. Ponte anteriore, che significa prendere una traversa e due bracci oscillanti, destro e sinistro montarli con un bullone, chiudere con un avvitatore ad aria. Tutto questo sommato per 104, quanti erano i pezzi, ho fatto un conto approssimativo (senza contare il logorio fisico che dovrebbe assommare dei chili mano a mano che il lavoro prosegue), limitandomi ai pesi puri che uno sposta dalla prima ora all’ultima, sono 185, 190 quintali che uno sposta tutti i giorni. Se noi pensiamo di programmare questo per un mese di seguito o per vent’anni, come c’è gente che sta facendo…
Io ho fatto per un mese quel lavoro li e poi mi hanno dato il mese di permesso per prepararmi agli esami e per darli. Non ho usufruito della mutua, come molti astutamente e giustamente fanno, per miei motivi che sono strettamente personali, di ordine morale. Non volevo cioè che la Fiat ad un certo momento potesse vantare inconsciamente o consciamente dei diritti sul sottoscritto, cioè arrivare a dire: io personalmente ho frodato la Fiat stando in mutua senza essere malato per due o tre settimane. Sarò stupido, ma io questo non l’ho voluto fare.
Nel mese e mezzo di permesso, con grande fortuna, ripeto, ho superato gli esami di abilitazione a giugno. Dopo le ferie il caposquadra mi chiama e qui inizia tutta una lunga trafila. Mi dice: ‑ Ma lei, che adesso ha il diploma, mica vuol continuare a stare in linea! ‑ E mi fa una « brutta», cioè la domanda per passare nella categoria impiegatizia. Fa la brutta e mi dice: ‑ Se lei la dà a me, io conosco il capofficina, poi conosco il caporeparto di qua, il vicecapo di la…. Era una persona mobilissima, forse, soltanto che era un «capo». Di conseguenza, essendo un « capo » ha una determinata forma mentis; non si può fuoriuscire di li, perché se no non sarebbe «capo». E’ inutile che mi si venga a fare delle discussioni! Io logicamente ho detto: si, si, si. Ho continuato a dire si per una settimana, due, tre, ma la domanda non l’ho mai consegnata, perché non volevo consegnarla, perché reputo un tradimento prendere un titolo di studio, avere la conoscenza di determinati problemi per ridursi a fare il poliziotto. Perché posso capire (non accetto pienamente, ma posso capire) lo studente che, dopo aver preso il diploma, passi in un ufficio tecnico, si mette a disegnare o va all’ufficio metodi, s’interessa di nuovo di quello che ha studiato. Ma personalmente, andare a fare il caposquadra o l’operatore con la possibilità di diventare caporeparto o vice capofficina perché ho avuto un diploma con il passare degli anni, mi sembra assurdo, perché si tratta soltanto di fare il poliziotto. Perché quello è il lavoro del caposquadra, quello è il lavoro del caporeparto, che dir si voglia. E’ la pura verità; basta parlare con chiunque dell’ambiente di lavoro. Di conseguenza ho detto ripetutamente di no.
Allora, dopo questo mio rifiuto non formale, ma intuito, dato che questa domanda non arrivava, sono cominciati i piccoli trasferimenti.
Spieghiamo di nuovo cos’è la linea. Io continuavo a rimanere a montare il ponte del 125. Dopo tre o quattro mesi che uno fa quel lavoro, comincia il fisico ad abituarsi; cioè quella grande fatica che si sente la prima settimana, oltre il primo mese diminuisce con il passar del tempo. Si abituano i muscoli, anche la mentalità; quelle azioni diventano meccaniche. Ci si riduce purtroppo allo stadio di gorilla, ma è meglio ridursi allo stadio di gorilla, che allo stadio di uomo distrutto, perché si va a casa e ci si deve mettere a dormire, se no il giorno dopo non ci si alza.
Loro, la piccola classe dirigente, tutto questo l’ha intuito. E qual è il mezzo di rappresaglia? non è aumentare il lavoro, ma non permettere che questo lavoro diventi una abitudine, cioè diminuisca di fatica. Allora che cosa fanno? trasferiscono l’operaio, una settimana in un posto, tre giorni in un altro, quattro giorni da un’altra parte.
Soltanto il mettere quattro bulloni su ogni pezzo (e si mettono cinquemila bulloni in otto ore) se qualcheduno l’ha provato si accorgerà cosa vuol dire la prima settimana; chiunque può darmi atto di tutto questo. Da settembre ad adesso, che siamo di nuovo al maggio dell’anno dopo, mi hanno trasferito continuamente; ma non soltanto il trasferimento dalla Ausiliarie a Mirafiori, da Mirafiori a Rivalta, da Rivalta di nuovo a Mirafiori; perché questo è stato il tragitto. All’interno di Mirafiori ho cambiato tre posti; all’interno di Rivalta ho cambiato tre linee e dieci posti; all’interno di Mirafiori, quando sono ritornato adesso soltanto da due mesi, ho già fatto quattro lavori differenti e ho già cambiato due linee.
Di conseguenza non danno la possibilità di abituarsi a nessun lavoro ed è come se uno arrivasse nuovo assunto. Al che la fatica è sempre quella. Quando si entra in una linea, non mettono a fare il lavoretto più semplice, ma mettono a fare il lavoro più faticoso, cioè caricare la linea: prendere i pezzi da un convogliatore ‑ che è quella catena molto lunga che porta tutte le cose ‑, e caricarli soprala linea. Alche io caricavo, ad esempio, pezzi del cambio della 5oo. La scatola di alluminio del cambio della 500, già saldata dalle due parti con il differenziale dentro, pesa 23 chili. Bisogna metterne sulla linea 870, 920. Se si moltiplica 870 o 92o per 23, si vede quanti chili un uomo deve prendere con una mano (perché con l’altra deve solo reggerlo, perciò lo sforzo è tutto sulla sinistra) per appoggiarlo sulla linea, chiuderlo, ripartire. Poi ci sono altre due o tre operazioni, come prendere un alberino, mettere due fermagli, due gommini: quelle sono cose da poco.
Tutto questo non è che lo faccia soltanto io, o che per me siala rappresaglia. Questaè la rappresaglia tipica per tutti i «sinistrorsi», diciamo cosi, all’interno della Fiat. Non è il problema del comunista o del socialista; è il problema dell’uomo che ha un minimo di spina dorsale. Gli altri subiscono determinate angherie, e di conseguenza li lasciano nello stesso posto. Invece quelli ribelli li trasferiscono di continuo. Questo non è soltanto l’esempio mio; assieme a me vi sono diversi compagni di lotta, che stanno viaggiando con me attraverso tutti i reparti della Fiat. Siamo quasi sempre uniti, perché ci trasferiscono in blocco. Non possono però trasferirci di sezione, io penso; non lo so di preciso. Non possono insomma, trasferire dalle auto in fonderia o alla velivoli; se no, l’avrebbero già fatto, avrebbero tentato di mandarci a Carmagnola o a casa del diavolo, per farci licenziare, perché diventa assurdo fare tre ore di viaggio per andare a lavorare.
Penso che, essendo stati assunti nell’ambiente auto, si debba rimanere limitati nell’ambiente auto, e le possibilità per l’auto sono Lingotto, Mirafiori, Rivalta o Stura o l’OM. Non vi è la possibilità di trasferire in fonderia o altro, perché fanno gli esami psicotecnici e fisici, che non ci hanno ritenuti idonei, per fortuna, almeno! Le fonderie sono la tomba dei vivi, almeno cosi dicono!
Lo scopo di tutti questi spostamenti è prima di incutere timore; cioè, finché tu ti comporterai in questo determinato modo, finché continuerai a parlare di politica, a dire questo, a dire quest’altro e a fare sciopero, subirai sempre questo trattamento. Questa è l’intimidazione, la caccia alle streghe, la solita cosa. Insomma, dura da cinquanta anni alla Fiat e continua a durare anche adesso. Soltanto che non è più aperta; è velata. Arriva la letterina; dicono: «Lei è stato trasferito per motivi ecc.». Cioè, cercano la solita scusa con una lettera.
Per esempio: parliamo di Rivalta. Io andavo a lavorare prima a Grugliasco, prendevo il pullman in piazza Robilant alle 8 tranquillo; ma lasciamo perdere, perché quello è un ambiente di specializzati e non interessa la grande massa di lavoratori. Parliamo di Mirafiori. Mirafiori: si prende il tram, è comodo. e per chi non ha comodità di tram ci sono i servizi speciali della Fiat‑ 91, 92, ecc. e portano in via Settembrini o altrove. A Rivalta invece vi è un solo pullman, che parte da Porta Nuova. Questo pullman, dato che bisogna bollare alle 6,115, parte alle 4,40. Al che bisogna svegliarsi alle 3,50. C’è gente che arriva già col treno a Porta Nuova da fuori e quindi si alza alle 3,30 o addirittura alle 3. E quando si va a Rivalta, non viene data una sovvenzione per il lungo tragitto, le spese, un indennizzo qualsiasi che compensi. Quando noi eravamo là cercammo di impostare una lotta per farci retribuire queste 10.000 lire, perché avevamo fatto il conto che tra il tram e il pullman per andare a Rivalta l’operaio perde una mensilità. La tredicesima se ne va per il trasporto. E la Fiat, sino a quando io ero a Rivalta, non pagava niente. Poi stavano minacciando sciopero per altre cose, e adesso penso che siano arrivati a qualcosa, ma non lo so di preciso.
Questo era Rivalta. Poi mi hanno trasferito di nuovo a Mirafiori. Al che ho detto: mi hanno fatto un favore, perché se prima mi facevano alzare alle 3,45, adesso che ho preso il diploma mi hanno mandato a fare la pacchia. Invecela pacchia non era. Perché? perché quando sono arrivato di nuovo a Mirafiori, mi sono reso conto di determinate sottigliezze e differenze tra una sezione e l’altra. Sembrano stupidaggini, ma lavorando dalle 6 alle 14,30, bisogna mangiare il panino alle 7, alle 8; se no, lo stomaco non regge. A Rivalta fermavano le linee tutti d’accordo dieci minuti; si mangiava il panino, e si continuava a lavorare. Alla Mirafiori questo non succede. Anche un uomo che lavora con del grasso, deve mangiarsi il panino sporco di grasso, se vuole mangiarlo, perché non può chiedere il permesso. L’intervallo è solo dalle io meno dieci alle io; ma se uno mangia il panino alle io, a mezzogiorno non mangia più niente, perché si deve pensare che si è usciti alle 5 di casa per andare a lavorare, e alle 7 circa gli operai devono mangiare. E allora si vedono gli operai che: «corri», allora in quattro, brum, brum, brum!, cominciano a correre sulla linea, e risalgono cinque o sei pezzi; poi, brum, tutti mollano gli attrezzi, gnu, gnu, gnu, tre bocconi. Allora il pezzo è di nuovo arrivato all’altezza dell’operaio che deve fare l’operazione ed è di nuovo la stessa storia; e si va avanti cosi. Si pensi che delizioso sia questo panino alle sette di mattina, sporco di grasso mangiato cosi! Questa è la situazione in tutte le linee alla Mirafiori. Il panino è meglio mangiarlo presto, verso le 7‑7,30, perché si riprende energia, bisogna avere qualcosa di sostanzioso nello stomaco, perché tutti gli operai della Fiat grazie al baracchino sono afflitti da disturbi gastrici, ulcere, ecc. e conviene allora mangiare poco e spesso.
Tra mezzogiorno e mezzogiorno e mezza c’è l’intervallo, con il quale in mezz’ora si deve lavarsi le mani, salire nel refettorio, prendere il baracchino dallo scaldavivande, andare nel refettorio, mangiare, ritornare giù, e poi suonala campana. Cioèin mezz’ora si deve fare quattro rampe di scale, salirle e scenderle, lavarsi le mani ‘ prendere il baracchino, la borsa, andare a mangiare e portare tutto a posto e ridiscendere di nuovo giù. Io a casa amo mangiare tranquillo in tre quarti d’ora e mia madre mi serve. Ora ci dovrebbero essere i problemi delle sette ore continuate, dalle 6 alle 13; allora uno può andare a mangiare a casa. Ma questi sono problemi che le organizzazioni sindacali si dovrebbero decidere a portare sul tavolo.
Ho studiato da geometra per fare un favore a mio padre. Non ho preso il diploma per il titolo di studio o per il miraggio di fare carriera. Assolutamente non credo a tutte queste cose, specialmente ben conoscendo quali sono le situazioni nell’ambiente Fiat dei diplomati. Per far carriera, per finire in certi uffici, per avere certi posti bisogna mettere quelli che sono gli ideali politici, umani, sotto i piedi, e continuare a vegetare, e non a vivere, nell’interno dell’azienda; cioè pensare al proprio lavoro, a fare gli interessi dell’azienda; e quelli che sono gli interessi, gli ideali personali metterli da parte e interessarsene fuori, ma senza farsi vedere logicamente, perché se ci si fa vedere, all’interno si sa.
Quando sono tornato da militare, avevo determinati problemi personali, senza attinenza col mondo del lavoro e della scuola; erano problemi miei, sentimentali, sociali, umani: lasciamo stare. E la scuola è stato lo sfogo; cioè l’occupare a pieno il mio tempo, non mi ha dato possibilità né di dedicarmi né di pensare ad altro. Ho radunato tutte le mie energie nello studio, e mi sono buttato. Non ho voluto trovare nello studio una affermazione, bensì dimostrare a me stesso che si poteva frequentare i due anni andando sempre a scuola, senza mai stare assente, e facendo quella vita che molti giovani hanno fatto, della mia età. Mi sono detto: voglio provare se ce la faccio anch’io. E ci sono riuscito. Il sacrificio è nei primi tempi, per fare l’abitudine a staccarsi da quello che era stato il mondo di quando avevamo vent’anni (« quando avevamo », come se fosse millenni fa; ma in effetti cinque, sei, sette anni nella vita di un uomo, specialmente quando passa dai diciotto ai venticinque anni, sono importanti, perché avviene la formazione di un individuo). Logicamente non si andava più a ballare né ad altri divertimenti, ai quali io in verità non ho mai tenuto molto.
Dipingevo una volta, ma alla pittura ho rinunciato prima di studiare. A un certo momento ho raggruppato colori, tele, pastelli, disegni e sono andato da un amico mio pittore che abita sotto di me e gli ho consegnato tutto. Era un periodo di crisi; avevo avuto una discussione con i miei genitori, mi avevano seccato per una serie di cose, e allora ho detto: tagliamo corto; ho chiuso una parentesi e sono andato a scuola.
Il problema della pittura è troppo importante per riprenderla. Come si fa? la pittura è un’arte, e come tutte le arti non può essere un hobby. Le arti sono ideali, ai quali uno dedica tutta l’esistenza, come può essere la passione politica e rivoluzionaria. Non ci sono cose di mezzo. L’uomo non si può sdoppiare nel lavoro e avere l’hobby del pittore della domenica. t un cretino, non risolve niente, perché sarà un pessimo operaio e un pessimo pittore.
Ho in progetto di andare a lavorare nell’Urss. Stando cosi le cose, tanto vale andare a fare il manovale in un’altra parte. Come posso piegare due coppiglie alla Fiat per Agnelli ed arricchirlo, posso dare il mio plusvalore a chi penso lo apprezzi maggiormente, con un fine migliore. Penso di andare a Togliattigrad o in qualsiasi altra città, se sarà possibile. Ora mi pare quasi certo; comunque andrò giù nelle vacanze e poi vedrò di fermarmi là. L’ambiente non è messo in discussione: esso è quello che è, ma anche sull’ambiente ci sarebbe molto da dire. Non è possibile inserire un sottoproletariato siciliano, calabro, veneto o delle valli piemontesi e alte valli della Val d’Aosta, inserire degli uomini che non hanno una conoscenza alcuna dei problemi sindacali né politici, del mondo moderno, in un’azienda in cui vengono non come proletariato industriale, ma come sottoproletariato. Di conseguenza sono una palla al piede, perché all’interno degli scioperi e delle manifestazioni non partecipano con quel entusiasmo con cui può partecipare non il torinese perché è nato a Torino, ma l’uomo che è inserito già da giovane nell’ambiente di lotta. Che questa lotta poi sia di tradizione familiare o nuova acquisizione, l’importante è che vi siala lotta. Mentretutta questa gente fuoriesce dall’ambiente di estrema miseria, e le 100.000 lire al mese che trova sembra una manna piovuta dal cielo ‘ e di conseguenza cessa completamente ogni forma di lotta. Sindacalmente è molto difficile che si formino, perché il sindacato all’interno della Fiat si sente poco. P, un dramma, ma è una realtà.
Vi sono persone che in dieci anni di vita alla Fiat hanno visto i membri di commissione interna quando vanno in giro a raccogliere i voti; se no, non li vedono mai. Il problema che ha l’operaio lascia completa autonomia al caposquadra e al caporeparto e all’operatore. Non telefona al 5500 per far venire il membro di commissione interna e dirgli: ‑ Guarda che qui hanno aumentato la produzione di tanti pezzi: possono farlo o non possono farlo? ‑ Colpa del membro di commissione interna, che non si fa vedere e avrà magari dei suoi problemi per cui non potrà venire (non sto a discutere in questo). E poi colpa dello scarso potere che il sindacato è riuscito ad ottenere nell’interno della Fiat attraverso la commissione interna. Questa è come se non esistesse. Tentiamo di ottenere il controllo sui cottimi, il controllo sui tempi; dovevamo mettere i cartellini da tutte le parti. Ma questi cartellini, chi li vede? dovrebbero essere appesi vicino alle linee. Almeno, per quanto io ho sentito, dopo gli ultimi scioperi, queste dovrebbero essere le conquiste attuali. Ma in effetti queste conquiste non si vedono.
Poi ci sarebbe tutto un discorso su quello che sono i tempi di lavoro. Il tempo dell’ufficio metodi programma una determinata linea, per fare questa operazione in tanti secondi. Esempio un caso particolarissimo ma molto significativo. Ogni due anni la Fiat, per norma di contratto (almeno cosi mi ha detto l’operatore dove lavoro lo: queste cose non le sapevo; do per voce sentita) ha la possibilità di aumentare il 2 per cento della produzione, data l’enorme capacità che acquista anche l’operaio dopo due anni di attività. Non è specificato se il 2 per cento è globalmente o individualmente, perché se fosse individualmente fa una certa somma, globalmente fa un altra.
Ma il problema qual è? questi uomini dovrebbero essere rimasti due anni all’interno della stessa linea. Allora la Fiat può vantarsi del diritto di aumentarela produzione. Maio personalmente sono andato in trenta linee, ho lavorato una settimana e ho dovuto inserirmi in quei ritmi di lavoro. Entra qui un lato del mio carattere: non vado a inserirmi e per una settimana faccio come ogni uomo intelligente fa, cioè non ce la faccio perché è la prima volta. Non posso dare quella soddisfazione, perché fa parte del mio carattere. Appena mi inseriscono in qualsiasi nuovo ambiente di lavoro, faccio subitola produzione. Poiper due notti non dormo, perché sono talmente distrutto che boccheggio, però non le dola soddisfazione. Questoa loro secca e si vede, perché freno e spunto le lance della persecuzione.
Questo è uno dei lati del perché non riescono ad inserirsi completamente nell’ambiente di lavoro. E poi vi è quella diffidenza tipica. t il sottoproletariato di ogni regione che subentra all’interno della Fiat, che ha una diffidenza tipica: faccio i miei interessi; quando va bene per me, va bene per tutti. Cioè quel qualunquismo, quell’individualismo stupido, che il capitalista ha tutto l’interesse a mantenere vivo, che si perpetua in tutta una serie di atti, di gesti di questi uomini.
Si è visto uno sviluppo politico anche fra questo sottoproletariato, con la più grande partecipazione agli scioperi, specialmente negli ultimi due anni. Poi sono stati molto toccati dagli omicidi di Avola e di Battipaglia. Tutte queste cose toccano; ma quello che dovrebbe essere la maturazione politica all’interno proprio della classe, non si sente. Cioè non sono proletari che partecipano agli ideali di classe. No, vengono toccati da quel fatto che li colpisce, ma poi tutto questo passa. Quello che li domina imperituro è il calcio, l’Inter; è una cosa che io non sopporto, eppure è quello. Il 99 per cento delle discussioni che assorbono gli operai amici miei è soltanto quello.
Io quando vado all’interno della Riv mi metto a cantare Bandiera Rossa, Fischia il vento, l’Internazionale. Non sanno queste cose; è assurdo. M chiedono: che cosa è? mai sentita l’Internazionale o Fischia il vento. E’ questa la realtà.
Si riscontra nel modo più vero e più crudo tutto questo nelle linee di montaggio, nelle catene, nelle giostre, in tutti i lavori che ho fatto da due anni a questa parte. E più che altro si sente molto la differenza fra quello che era il lavoro delle Ausiliarie ‑ che era un lavoro specializzato, dove si sfruttava delle nobili qualità, intelligenza, attività ‑ e quello che si sfrutta attualmente, che è la fatica fisica portata all’abbrutimento.
Io vedo degli uomini di cinquanta, sessant’anni che hanno passato trent’anni li dentro e non hanno neanche più l’aspetto, perché sono gobbi, hanno le ulcere, hanno il piede grosso, la tallonite, hanno tutte le malattie di questo mondo. Perché non c’entra tanto il fumo; anche per il ripetere meccanicamente una stessa operazione c’è gente che fuma cinquanta sigarette al giorno, perché se no continua a schiacciare i bottoni. Sembra di vedere quelle caricature di Dario Fo, che quando usciva dalla fabbrica il tipo continuava a stappare la bottiglia di gazzosa e dopo un quarto d’ora che aveva finito, continuava a fare cosi. Cioè, quello è l’assurdo; ma nella realtà si riscontrano fatti come questi.
Il lavoro alla catena porta al deterioramento dell’intelligenza, specialmente se l’uomo non vede questo come una condanna e non reagisce. Per me, il sistema per combattere tutto questo è la lotta. lo partecipo e sono ridotto a questo, però la mia liberazione èla lotta. Lottandocontro questo, vi è la possibilità di riscattarsi. Allora io non sono più la bestia, sono la bestia completa di intelligenza e di facoltà; voi mi tenete con la catena al collo, ma cercate di tener stretta la catena, perché se la mollate vi salto addosso. Quello è l’unico mezzo per rimanere uomo. Bisogna lottare, perché se cessa questa lotta, buona notte. I giovani, quasi tutti, hanno desiderio di lottare, almeno quelli che ho incontrato io, di ventiquattro, venticinque anni, insomma quelli della mia generazione. Quelli che hanno i trent’anni sono già assorbiti. 0 si trovano i vecchi leoni, che riempiono il cuore di gioia, perché si vede il tipo con i baffi bianchi, di cinquant’anni. ‑ Io ero… ‑ dice e continua a fare sciopero e continua a lavorare in linea. Li ho visti io. Allora quegli uomini li sono la vecchia guardia: sembra di vedere uno Stalin o un Lenin. Noi li rispettiamo moltissimo, ci mancherebbe altro. Discutiamo meno con loro, perché loro non possono avere la lucidità di problemi come noi abbiamo: ma sono i simboli. Di fronte a un uomo cosi, ma io gli do le sigarette, gli darei metà del mio stipendio, se ne avesse bisogno. t logico che ascoltarlo a fondo, mi può dare dei consigli come mi può dare un vecchio. Cioè, un vecchio mi può non illuminare su teorie, o svilupparmi tutta una prassi filosofica o politica; mi può dare degli esempi di vita vissuta. Io, attraverso i suoi esempi, filtrerò e arriverò a una conoscenza specifica di determinati problemi. Questo è il valore della vecchiaia nel mondo moderno.
Con me vi sono diversi giovani che studiano di sera. Sono quasi tutti compagni, perché è difficile che un uomo, che abbia la costanza di stare cinque o sei anni a studiare, non sia un compagno: o è un arrivista sociale, e allora vede nella scuola il mezzo di arrivare a qualche cosa, e diventerà un ottimo tecnico ma un pessimo uomo. Quasi tutti sono compagni. Sono miei amici. Quando studiavo, ci trovavamo. Più che altro, appena arrivavamo, si spargeva la voce, ci chiamavamo per formarela cellula. Sudiecimila eravamo solo noi, cinque o sei, che discutevamo. Non è tanto occuparsi di politica attiva, cioè partecipare a riunioni e andare in federazione o altro, perché il tempo per questo non c’è; cioè occuparsi di politica come valore, attraverso la cultura, la lettura e l’esperienza, andare alla manifestazione quando c’è e quando si ha la possibilità di andare e anche la voglia, perché a volte non si ha voglia di andare a prendere legnate dai poliziotti e non potergli dare niente. A volte passano anche questi pensieri per la testa; al che, uno piuttosto sta a casa, prende Granisci e lo legge.
Nell’interno non si può discutere di politica; specialmente se uno lavora in linea, in catena, è vincolato al posto di lavoro. Se deve assentarsi, può assentarsi dalle io meno dieci alle io, quando c’è intervallo o, se no, permesso solo per i bisogni fisiologici, e allora una volta al giorno l’operatore sostituisce per dieci minuti al massimo. Bisogna fare la produzione; la produzione è vincolata dalla catena che gira. t un motore elettrico; tanti giri diviso per otto ore; un uomo si mette alla mattina alle 6 e finisce al pomeriggio alle 2,30. Poi si può andare più veloce per finire alle 2,15. Ma non è che loro facciano questo per migliorare la situazione dell’operaio, perché abbia un quarto d’ora libero. No. Questo quarto d’ora serve per rimediare a eventuali intoppi di lavorazione, mancanza di corrente, di pezzi, fermata di linea, che ci fanno recuperare perché andiamo più forte. Questo è un altro furto alla classe operaia, per cui nessuno protesta. Dicono: ecco, ci tolgono dieci minuti prima, lui si siede e fuma la sigaretta, mentre non si accorgono che questo quarto d’ora il più delle volte si risolve a cinque minuti. Capita di rado che l’anticipo arrivi a venti minuti, perché sempre succede qualche cosa, e si recupera quello che non si è potuto fare prima.
Lo studente lavoratore può avere due finalità. 0 lo studente va a scuola per se stesso, per un piacere di cultura ed avere del sapere, che poi la vita non si sa mai che cosa può riservarci, o per il titolo di studio, che è sempre un pezzo di carta che può servire, apre delle porte; sono cose che non si possono scartare a priori. Ma il problema rimane questo. un uomo, a prescindere dal mestiere che fa o che potrà fare, va a scuola per che cosa? per se stesso, per imparare o per avere il certificato di carta? Questo è il solito divario fra cultura tecnicistica e cultura formativa, tra cultura scientifica e cultura umanistica. Si risolve anche nel caso dello studente lavoratore. Cioè, lo studente va a lavorare per se stesso o per il pezzo di carta? va a lavorare per fare carriera, o per avere una cultura? Io sono andato per avere la cultura, che poi questo si sia risolto per un piacere a mio padre, questo è un problema mio. Però il fine rimane sempre quello. Anche se di cultura non me ne abbia data molta, ho sempre imparato a costruire un solaio o le fondamenta di una villetta.
Io non, penso che lo studente serale si differenzi molto dallo studente tradizionale: lo studente è sempre studente.
La Fiat dà dei premi, in denaro, che variano secondo i diversi tipi di scuola, dalla licenza media agli esami dell’università. Nel mio caso, di diploma, ho avuto 35 000 lire di premio di frequenza e adesso avrò 30 000 lire di indennità di esame, per i giorni che si perdono per gli esami. Tutto questo a patto che. si . abbia almeno un anno di anzianità e l’esito degli esami sia positivo. A livello universitario penso che la Fiat regali delle ore al mese o dà delle facilitazioni nell’ambito del lavoro> sempre il primo turno o il lavoro notturno. Però non lo so con certezza quante siano le ore di abbuono ogni mese. Variano le ore di premio mano a mano che ci si avvicina alle facoltà scientifiche: la massima deve essere per ingegneria meccanica e poi si scende fino a lettere o legge.
C’è una cosa che è spaventosa e che è meglio dire: lo choc che prova il giovane appena entra. A prescindere da tutti gli esami che fanno, c’è un esame che io ho definito psicotecnico nel vero senso della parola. Cioè, si entra nello sgabuzzino dove è il medico, che fa una visita completa all’individuo. Dopo aver fatto capacità polmonare, nelle braccia, nelle gambe, vista, condizioni dello stomaco, esame del sangue, ecc‑ fanno in più questa visita completa. Non si va in mutandine (come alla visita militare oggi), ma si pretende che si vada ignudi. Questo è già un’umiliazione per un uomo; poi il trattamento che questo medico fa, forse la gente non lo comprende, ma è un trattamento che è appositamente brutale per vedere la reazione dell’individuo. Non dice: ‑ Per cortesia, si giri _ Ma ti prende e ti gira di brutto. Non è che il palpaggio Per vedere se uno ha l’appendicite o altro avvenga delicatamente o con la forza dovuta ad un medico, ma è brutale. t, brutale in tutte le sue azioni. Io penso che questo avvenga per vedere le reazioni dell’ìndividuo in rapporto a una certa autorità.
i il « barachìn », nel gergo torinese di fabbrica, è la pietanziera dell’operaio.