Fiat Rivalta LA FABBRICA TERZIARIZZATA
Rivalta, 5 aprile 2000 Sartirano Luigi, Vittorio Rieser, Mimmo Garetti
Terziarizzazioni, esternalizzazioni, outsourcing: sono termini sempre più frequenti, “di moda”; tuttavia, essi si riferiscono a fenomeni molto concreti e diffusi. Potremmo dire che essi indicano uno degli aspetti reali di quel “post-fordismo” che spesso si ammanta di elementi ideologici. I processi di terziarizzazione, infatti, danno un ulteriore colpo al modello tipico dell’impresa fordista.
Già nel pieno della fase fordista, a dire il vero, si erano sviluppati processi di disintegrazione verticale dell’impresa: già negli anni’60, ad esempio, un 50% dell’auto veniva prodotto fuori dall'”azienda-madre”. Ma questi processi sembrano ora segnare un salto di qualità, sia in intensità che in estensione e investono non solo le imprese industriali ma le imprese del terziario privato e la stessa Pubblica Amministrazione, che nella fase del Welfare State aveva visto ampliare i propri compiti, e ora appalta quei compiti (quando non li dismette) a imprese del settore privato.
Per usare una formula sintetica, il dilemma di fondo tra make or buy (fare o comprare) si sta sempre più “sbilanciando” a favore della seconda alternativa. Si tratta dunque di una tendenza sempre più diffusa. Diffusa non equivale però ad egemone: queste tendenze, almeno per ora, non sembrano configurare un nuovo modello organizzativo “compatto” ed assestato.
Esse rientrano nelle sperimentazioni variegate, e talvolta contraddittorie, di modelli organizzativi di impresa che superano i limiti del fordismo. Ma resta vero che esse rimettono ulteriormente in questione gli stessi nuovi modelli (produzione snella, fabbrica integrata, ecc.) nati dalla crisi del modello fordista-taylorista “classico”.
In queste note dedicheremo la nostra attenzione ai modi in cui questa tendenza si sta sviluppando in Fiat Auto. E questo per un duplice motivo: perché l’auto è stato il “luogo classico” del fordismo e delle sue forme di integrazione verticale; e per vedere come queste tendenze interagiscono con quel modello organizzativo “post-fordista”, che almeno in teoria era notevolmente innovativo , cioè il modello della Fabbrica Integrata, che la Fiat ha avviato nell’ultimo decennio.
Proveremo ad analizzare il problema in riferimento a uno specifico stabilimento, cioè quello della Fiat Auto di Rivalta (Torino): sia perché, tra gli stabilimenti italiani, è forse quello dove i processi di terziarizzazione sono andati più avanti, sia perché è quello su cui disponiamo di maggiori elementi di conoscenza.
- Nelle enunciazioni dei dirigenti Fiat più capaci di elaborazione teorica sull’evoluzione aziendale, sembra delinearsi una nuova fase organizzativa: dalla Fabbrica Integrata si passerebbe alla Fabbrica Modulare, con un salto innovativo non minore di quello che la Fabbrica integrata aveva rappresentato rispetto al tradizionale modello fordista-taylorista. Di questo salto di qualità,i processi di terziarizzazione rappresentano appunto l’elemento-chiave. Ripercorriamo questo schema interpretativo seguendo una delle esposizioni che ne ha fatto Maurizio Magnabosco, Direttore del Personale e dell’Organizzazione di Fiat Auto.
- Significativamente, la relazione di Magnabosco, a cui facciamo qui riferimento, si apre con un’affermazione molto precisa: “Melfi (cioè quella che in Italia era la realizzazione più compiuta della Fabbrica Integrata – NdR) si configura oggi, in qualche modo, come un’esperienza del passato”. Magnabosco delinea le grandi tappe del processo di crescente “de-verticalizzazione” dell’impresa automobilistica. Il primo salto di qualità lo colloca alla manifacturing fine degli anni 70, con il completo decentramento dell’accessoristica. All’inizio degli anni 90 si ha un mutamento qualitativo del rapporto fornitore-cliente, con lo sviluppo della fornitura Just in time. “Oggi – dice Magnabosco – siamo nel pieno fermento di una fase ulteriore, iniziata un paio di anni fa, che è stata definita di terziarizzazione avanzata”. Di questa fase, Magnabosco distingue due aspetti: “la terziarizzazione dell’area dei servizi (amministrazione, sistemi informatici, logistica, ricambi), e quella delle aree di trasformazione: handling global service,“, sottolineando che “soprattutto questo secondo aspetto presenta grandi elementi di novità”. La “fabbrica modulare” è lo sbocco di questo processo: esempi compiuti di realizzazione di questo modello si ritroverebbero nel nuovo stabilimento Fiat di Pune in India e in quello della Volkswagen a Resende, in Brasile. In questo nuovo modello, all’impresa-madre restano come responsabilità dirette “l’esecuzione del montaggio finale; il governo del processo globale di fabbricazione; la garanzia degli standard di costi e qualità e del rispetto dei tempi; l’identità e l’immagine di marchio“; tutto il resto è affidato a imprese esterne.
Fin qui Magnabosco.
Cerchiamo ora di vedere quali possono essere le logiche sottostanti a questi processi. Esse riguardano l’utilizzo della forza-lavoro: l’obiettivo sembra essere non tanto e non solo un costo del lavoro più basso (Magnabosco sottolinea che tutte le imprese dovrebbero essere coinvolte in un sistema coordinato di relazioni sindacali), quanto quello di massimizzare la flessibilità della prestazione lavorativa e dei livelli occupazionali. In secondo luogo, si punta ad aumenti di efficienza e produttività derivanti da imprese esterne (ad es. nella logistica o nella manutenzione).
Infine, v’è una questione generale, che attiene alla crescente propensione per il buy rispetto al make, a cui accennavamo all’inizio, e che può essere riformulata in termini di alternativa tra “mercato” e “gerarchie”: in Fiat, come in altre imprese, sembra essere maturata una profonda sfiducia nella “via gerarchica” di realizzazione dell’efficienza e degli obiettivi aziendali, e un crescente affidamento al rapporto di mercato come mezzo ben più efficace di controllo e di orientamento.
Si pensa cioè che un’impresa esterna, legata da rapporti di fornitura, sia più affidabile di un capo o dirigente intermedio nella realizzazione degli obiettivi aziendali.
La mappa dell’organizzazione del lavoro a Rivalta
Distinguiamo sistematicamente tre grandi aree di attività:
- attività “di servizio” Qui operano: GESCO (amministrazione – 40 add.), SEPIM (amministrazione manodopera – 5 add.), ITS (meccanografico, 10 add.), TELEXIS (reti telefoniche, 5 add.), FENICE (centrale termica, 30 add.), INGEST (manutenzione ordinaria immobili, 6 add.), SIRIO (sorveglianza e pompieri, 50 add.). Sono tutte aziende appartenenti al gruppo FIAT, tranne Sirio che è un consorzio.
- attività indirettamente legate alla produzione TNT (logistica-trasporti, 500 add.), COMAU SERVICE (manutenzione, 400 add.), MOVINCAR (manutenzione carrelli, 25 addetti.
- produzione diretta. Il gruppo MARELLI effettua la produzione di sistemi-sospensioni (680 add.) e delle plance (120 add.). La STOLA/ITCA si occupa di stampaggio e di lastratura parti mobili (400 add.). Gli addetti (di cui si dà qui una stima approssimativa) sono ovviamente quelli che operano nello stabilimento di Rivalta, e non gli addetti totali delle aziende sopra elencate. Come si vede, si arriva a un totale di quasi 2.300 dipendenti “terziarizzati”, a fronte di circa 3.200 tuttora dipendenti di Fiat Auto: dunque, circa il 40% dei lavoratori di Rivalta è stato “terziarizzato”.
A partire da questa mappa, sono opportuni alcuni commenti.
Anzitutto, come si può vedere, la netta maggioranza delle imprese verso cui si sono terziarizzate le attività (e una maggioranza, sia pure meno netta, dei dipendenti “terziarizzati”) appartengono al gruppo Fiat. Questo fenomeno si inquadra in una strategia più ampia, che non riguarda solo la trasformazione di Fiat Auto: l’obiettivo strategico è di trasformare una serie di “branche di attività” finora tutte interne alla Fiat, in vere e proprie imprese, che non solo forniscano servizi ai vari stabilimenti Fiat, ma si presentino sul mercato, offrendo questi stessi servizi ad altre imprese.
Un caso particolare ed emblematico di questi processi di trasformazione è costituito dal COMAU. Da un lato, esso (attraverso l’azienda COMAU SERVICE) offre assistenza tecnica e manutenzione alle imprese (non solo Fiat) per le quali ha prodotto impianti e macchinari: dall’altro, al proprio interno, esso ha sviluppato una terziarizzazione molto spinta della produzione di questi stessi impianti: potremmo dire che, almeno in tendenza, il grosso dei lavoratori Comau opererà fuori dagli stabilimenti.
Quali sono le imprese non-Fiat coinvolte nei processi di terziarizzazione alla Fiat Rivalta? A parte alcuni casi minori, ci sono due casi importanti, con caratteristiche diverse. Il primo è costituito dalla ben nota TNT, cioè da una grossa multinazionale specializzata in trasporti e logistica. Il secondo è costituito dalla STOLA/ITCA, e cioè da un’impresa inizialmente operante nell’indotto auto, che si è via via sviluppata
Si prospettano infatti estensioni dei processi di terziarizzazione ad altri segmenti del processo produttivo, ad esse. Alla lavorazione delle porte. Rivalta: “modello” e realtà della Fabbrica Modulare. Nell’ipotesi strategica della Fiat, con la Fabbrica modulare la “produzione snella” dovrebbe diventare ancora più snella, cioè più flessibile e più libera da impacci burocratici. Il passaggio dai rapporti di mercato “simulati”, che si era cercato di introdurre con la Fabbrica Integrata (si veda l’insistenza sullo schema del “cliente interno”), a rapporti di mercato veri e propri dovrebbe incrementare la qualità e l’efficienza.
Nella realtà, le cose sembrano molto più complicate. Vediamone alcuni aspetti.
Anzitutto, quella che potremmo chiamare “logica dello scaricabarile”, tipica delle organizzazioni burocratiche, non solo non scompare, ma tende a impregnare i nuovi processi e i nuovi rapporti (anche quelli con aziende dello stesso gruppo Fiat). Si cerca di scaricare responsabilità con i relativi costi: a chi addebitare i costi di un fermo-impianto? Alla produzione o all’impresa responsabile della manutenzione?
Le forniture che arrivano dall’esterno dovrebbe controllarle TNT, ma poi c’è chi ricontrolla il controllo fatto da TNT, e si moltiplicano i contenziosi sulle responsabilità. I meccanismi di “scaricabarile” si articolano così in ramificazioni più complicate di prima, in cui è più difficile rintracciare responsabilità. Ed assumono aspetti nuovi: il più macroscopico è l’operazione di “scaricare dei lavoratori inidonei” alla TNT.
L’autonomia e flessibilità di cui dovrebbero godere le imprese “terze”, si scontra con le gerarchiche di vario tipo. Ad esempio, la vecchia gerarchia di officina Fiat si trasferisce integralmente e senza modifiche nell’impresa esterna. Si determinano spesso accavallamenti o indeterminatezze, non solo di responsabilità, ma di compiti/competenze e di personale.
Si moltiplicano casi di rallentamenti e intoppi nelle comunicazioni, poiché anche quelle che prima erano dirette ora devono seguire un più complicato itinerario “inter-aziendale”. Ad es., recentemente, in un reparto, al cambio turno era spento l’apparecchio di abbattimento fumi: c’è voluta un’ora e mezza (di sciopero dei lavoratori) perché Fenice (la nuova impresa autonoma a cui sono affidati questi compiti) arrivasse a riattivarlo; con conseguente un conflitto su chi debba assumersi il costo dello sciopero .
Anche nell’utilizzo della forza-lavoro – su cui le terziarizzazioni dovrebbero permettere una grande flessibilità – si creano nuovi elementi di rigidità: ad es.: in passato erano possibili forme di mobilità tra lavoro di carrellista e lavoro sulla linea, che ora non lo sono più perché si tratta di lavoratori di imprese diverse. Più in generale, si ricrea in forme nuove un tessuto di rapporti informali, talvolta leciti talvolta meno, che a volte problemi alla produzione
E la qualità? in questo quadro ricco di contraddizioni? Potremmo dire che la qualità “sopravvive”: non diminuisce, anche se non aumenta. Ma aumentano i costi (talvolta “invisibili”, nel senso vale a dire difficilmente misurabili o non immediatamente percepibili) sostenuti per raggiungerla. L’esempio più rilevante, in proposito, riguarda il Just in Time: il sistema nel suo complesso presenta vistose défaillances, e il rifornimento puntuale delle linee è garantito grazie al ricomparire e proliferare (talvolta nascosto) di quelle scorte di cui si vantava la riduzione/eliminazione..
Soprattutto, siamo ben lontani da quel “presidio globale” dei processi e della loro qualità, che doveva essere un tratto distintivo del nuovo modello organizzativo. In proposito, vale forse la pena di accennare a un altro aspetto. Più in generale, in Fiat c’è stata – in questi anni – e continua ad esserci, una sorta di “convergenza oggettiva” tra azienda e sindacati nel non fare della qualità un tema centrale delle relazioni industriali. Da parte aziendale, ciò rientra perfettamente in una concezione secondo cui tutto quel che riguarda l’organizzazione della produzione è prerogativa esclusiva dell’azienda. Più contraddittorio è il panorama del lato sindacale. I sindacati più “vicini all’azienda” sono paralizzati dal timore di creare problemi alla Fiat: quando la FIOM a Rivalta ha criticato la “politica della qualità” della direzione di stabilimento, gli altri sindacati l’hanno attaccata pubblicamente, accusandola di voler screditare l’azienda.
Ma anche “da sinistra” c’è spesso il timore di entrare nel merito di questi problemi, per ragioni formalmente opposte, cioè per la paura di invischiarsi in forme di collaborazione subordinata. L’effetto, comunque, è in genere analogo: quello di lasciare all’azienda la gestione unilaterale della qualità.
Le relazioni industriali nella Fabbrica Modulare. Nella maggior parte dei casi, i lavoratori “terziarizzati” hanno mantenuto i loro trattamenti “pregressi” di dipendenti Fiat, e sono inquadrati nel contratto metalmeccanici.
Questo, sia perché molti di loro sono passati ad altre aziende del gruppo Fiat, sia per un’altra ragione piuttosto “cogente”: se, ad es., i lavoratori TNT fossero inquadrati nel contratto del commercio (come avviene in altre situazioni), i loro scioperi per il rinnovo del contratto bloccherebbero tutta la produzione Fiat…
I Rappresentanti Sindacali Unitari delle lavorazioni terziarizzate sono stati “terziarizzati” insieme ai “loro” lavoratori e hanno mantenuto il ruolo di RSU. Nel caso della TNT c’è già stata una nuova elezione delle RSU.
Ma le imprese più piccole non hanno RSU, o per lo meno non hanno un delegato in loco, e quindi esiste una porzione di lavoratori privi di loro rappresentanti diretti.
Soprattutto, diversamente da altre situazioni dello stesso gruppo Fiat (come l’OM/IVECO di Brescia), non c’è un’istanza riconosciuta che raggruppi, da un lato, le diverse RSU del sito e, dall’altro, le diverse controparti.
Capita, dunque, che un rappresentante non possa intervenire su cose che avvengono a due passi da lui – perché “di competenza” di un’altra RSU, che però magari non è fisicamente presente in quel luogo.
Un esempio in proposito: recentemente, in un’area di appartenenza al gruppo Marelli, durante le lavorazioni del secondo turno, è partita una molla, causando un infortunio grave. Ciò è avvenuto a dieci passi dalla RSU di Fiat Auto – e, tra parentesi, in quel momento il capo Marelli era irreperibile. I delegati sono intervenuti subito, e hanno bloccato la produzione, con conseguente perdita di vetture. In un primo momento, la Fiat voleva far pagare i danni ai delegati!
Ora la Fiat auto vuol rivalersi sulla Marelli, che dice “i delegati che hanno bloccato la produzione sono tuoi”…
Ma, d’altra parte, se scoppia uno sciopero alla Marelli, la Fiat Auto manda i “suoi” rappresentanti sindacali unitari a vedere cosa succede.
Un altro esempio: nell’accordo sui “ponti” legati alle vigilie di Natale e Capodanno, le altre aziende hanno dovuto accodarsi all’accordo concluso in Fiat Auto. Ma i loro delegati non ci stanno ad avere un ruolo puramente passivo, tant’è vero che la Fiat ha dovuto promuovere un incontro con la TNT e i suoi delegati.
Abbiamo, dunque, un tessuto debole e inesistente di relazioni industriali “trasversali” riconosciute, a cui spesso si sopperisce con relazioni industriali di fatto, informali. Un altro modo, attraverso cui colmare i vuoti e le carenze del tessuto di relazioni industriali formali, è naturalmente l’iniziativa organizzata (di denuncia, di agitazione, di lotta) del sindacato sui temi comuni ai lavoratori delle diverse aziende.
Ad esempio, dall’avvio della “terziarizzazione TNT” (meno di due anni fa) il sindacato – in genere la FIOM, ma qualche volta i quattro sindacati unitariamente – ha prodotto una cinquantina di volantini o di locandine sui problemi della condizione di lavoro che, in vario modo, coinvolgono insieme i lavoratori Fiat e quelli TNT: problemi di organici e di carichi di lavoro, problemi di sicurezza, ecc. E, a partire da queste iniziative, Fiat e TNT sono spesso state costrette a momenti negoziali (formali o informali), e una parte dei problemi denunciati sono stati risolti.
Tutto ciò, naturalmente, non elimina il problema di fondo: come definire regole, istanze, strutture organizzative che colleghino quello che – al di là delle terziarizzazioni – rimane un unico processo produttivo. Di qui il problema di “organismi di sito”, che riguardino non solo la gestione quotidiana dei problemi e i momenti negoziali, ma investano la stessa composizione delle “commissioni partecipative”, che non possono coinvolgere solo i rappresentanti dei lavoratori Fiat Auto in senso stretto. Di qui, in una prospettiva più ampia, il problema del “contratto di prodotto” o di analoghe strutture contrattuali che colleghino tutti i lavoratori coinvolti nel medesimo ciclo produttivo.
Una postilla, più che una conclusione, perché non è un tentativo di interpretazione “globale” (dio ne scampi!) dei processi di terziarizzazione alla Fiat, ma l’enunciazione di alcune impressioni, o di ipotesi molto parziali.
Molte scelte innovative nel modello organizzativo, compiute dalla Fiat nel corso di questo decennio, sembrano orientate anche (non soltanto!) da un tentativo ricorrente di “liberarsi di elementi del proprio passato”. Quali elementi? Elementi di burocrazia in senso lato, a cui abbiamo già accennato nelle pagine precedenti: rigidità, non-trasparenza, scarico di responsabilità, intoppi nel flusso di informazioni, ecc.
Ma puntualmente, questi elementi si ripresentano e “permeano” misura parziale e anche i nuovi modelli organizzativi via via introdotti. Vediamo da vicino questo percorso. La Fiat ha risposto alla fase conflittuale degli anni ’70, che aveva scosso il suo sistema sociale aziendale, in termini di restaurazione più che di innovazione. Si è così ricostruito un modello organizzativo che nasceva “già vecchio” nelle sue strutture e cultura. Inizialmente la Fiat ha cercato di “rivitalizzarlo” attraverso la tecnologia, con l’introduzione massiccia dell’automazione: ma quel modello si è rivelato incapace di incorporare efficacemente l’uso della nuove tecnologie.
A quel punto, la Fiat ha capito che bisognava allontanarsene, liberandosi il più possibile della sua influenza anche “residuale”: la scelta dei greenfields di Melfi e Prato la Serra nasce, oltre che da ovvie (e pesanti) ragioni di convenienza, dal tentativo di fare “tabula rasa” del proprio passato. Ma, anche a Melfi, i “fantasmi del passato” si sono ripresentati, e la “fabbrica integrata realizzata” è risultata assai diversa dal modello iniziale.
La Fabbrica Modulare è il tentativo più recente di scuotersi di dosso questa vischiosa “eredità” organizzativa e culturale: e ne abbiamo or ora visto difficoltà e contraddizioni.
Perché questo avvenga, e in che misura sia un fenomeno peculiare Fiat o un fenomeno più generale, è un problema che richiederebbe una discussione ben più ampia e approfondita. Qui ci limitiamo a segnalare uno dei possibili spunti di interpretazione.
Lungo questo percorso di innovazione organizzativa, la Fiat non ha sostanzialmente innovato i suoi modelli di controllo sociale sul lavoro: in sostanza, non ha saputo “assimilare il conflitto” (con le sue forme, le sue regole, i suoi sbocchi) nel suo sistema sociale aziendale. Il fatto che, in Fiat, le relazioni industriali più concrete, che producono qualche effetto, siano per lo più informali, e che quelle “ufficiali” siano inconcludenti o si limitino a recepire le decisioni dell’azienda ne è un sintomo significativo.
In questo quadro, tendenze al controllo sociale autoritario e tendenze al funzionamento “burocratico” (nei significati prima indicati) si saldano in un effetto di “assorbimento” degli aspetti più innovativi delle trasformazioni organizzative.
La conservazione del sistema sociale aziendale tende a impedire o attenuare ogni “scossa” che ad esso possa derivare dalle scelte di innovazione organizzativa.
note: Una breve nota personale sugli autori dell’articolo: un “ricercatore” e due delegati sindacali della Fiat Rivalta. Uno di questi diede, tempo fa, una felice definizione: “voi siete i ricercatori, noi siamo i trovatori“. Questa “distribuzione dei ruoli” si riflette anche in questo articolo, in cui i contenuti e l’impostazione di fondo vengono anzitutto dai “trovatori”, e il “ricercatore” ha talvolta aggiunto qualche divagazione teorica, di cui si assume l’esclusiva responsabilità.
Un’analisi molto simile a quella qui proposta si trova in Piero Pessa, “La terziarizzazione Fiat ha mandato in soffitta la Fabbrica Integrata”,
Le scorte, naturalmente, le fanno (e le pagano) i fornitori: quindi, in questo come in altri casi, i “costi della qualità” non gravano su Fiat Auto, ma su altre aziende del processo. Di questi fenomeni, Fiat Auto tende a dare una lettura “in positivo”: non in termini di “scaricabarile”, ma di ulteriore responsabilizzazione dei fornitori (ad esempio, sta a loro sapersi organizzare in Just in Time, riducendo così i costi delle scorte).
In teoria, questa nuova impostazione della qualità dovrebbe accentuare il “ruolo attivo” del cliente e ridimensionare il ruolo dell’Ente Collaudo.
Naturalmente, condizione preliminare perché gli “organismi di sito” siano realmente rappresentativi è che i lavoratori del sito (anche quelli appartenenti a piccole unità aziendali) possano eleggere i loro rappresentanti.