VENT’ANNI DOPO
Gabriele Polo: I 35 giorni dell’80 segnano uno spartiacque dei rapporti sociali, sindacali e politici italiani. C’erano fin dall’inizio i sintomi della portata storica di quell’evento?
Claudio Sabattini: I segnali c’erano tutti, anche se non sono stati compresi appieno. Nell’impostazione che la Fiat diede nella primavera dell’80 alla vertenza l’obiettivo era palese: l’azienda voleva recuperare la produttività attraverso un forte taglio dei tempi e l’intensificazione dei ritmi di lavoro, mettendo cioè in discussione molte delle conquiste sindacali degli anni precedenti. Era un modo per scardinare il sistema di controllo che veniva esercitato dai delegati e dai lavoratori sul flusso produttivo e sulle proprie condizioni di lavoro. Ma era anche il sintomo di una strategia generale che avrebbe dovuto essere colta in pieno, il segnale che la competitività doveva essere inseguita con un aumento dei ritmi di lavoro che determinavano la contrazione del numero degli occupati rispetto ai volumi produttivi. Noi rifiutammo quelle proposte della Fiat, pur cercando di mantenere aperto il confronto, ma arrivammo presto alla conclusione che non era possibile continuare la trattativa sulla base delle richieste aziendali. Fu subito chiaro che andavamo a una resa dei conti.
Gabriele Polo: Da quando era chiaro?
Claudio Sabattini: Almeno dal contratto del ’79 dei metalmeccanici, concluso con gli operai in piazza, e grazie al governo che, per ragioni di ordine pubblico – come disse allora il ministro – intervenne per trovare una soluzione. In quell’occasione la categoria e le imprese si erano affrontate sulla base di rapporti di forza puri e il livello di lotta dei lavoratori fu altissimo. La Fiat visse molto male quel contratto e si convinse che i rapporti sociali non si sarebbero ammorbiditi, anzi si sarebbero inaspriti. Prese corpo allora la decisione di accelerare lo scontro, prendendo l’iniziativa, anche in maniera traumatica. Subito dopo il contratto vi fu il licenziamento di 61 lavoratori alla Fiat, con l’accusa di atti di violenza. Eravamo ancora in una fase in cui il terrorismo era molto attivo – pur avendo già ricevuto molti duri colpi – e la Fiat puntò sull’equazione conflitto=violenza in fabbrica=terrorismo, un’operazione propagandistica che pesò moltissimo su tutta la città.
Gabriele Polo: La Fiat non accusò i 61 di terrorismo, ma di violenza, però a sostegno di quell’equazione partì una violentissima campagna di stampa: come a dire, si pronuncia violenza, si sottintende terrorismo.
Claudio Sabattini: Esatto, l’obiettivo non era quello di mandare in carcere o di licenziare i 61 – che nei processi furono quasi tutti assolti – ma di creare un clima culturale e sociale che individuava nel conflitto in fabbrica una delle radici del terrorismo. Era un clima che annunciava l’arrivo della tempesta.
Gabriele Polo: Bisogna ricordare che a Mirafiori gli scioperi di solidarietà con i 61 andarono male, anche se pochi mesi prima quelli per il contratto erano andati benissimo…
Claudio Sabattini: Si. Ma questa differenza è spiegabile con il peso del terrorismo e con il clima che si viveva nelle fabbriche. Il sindacato su questo era stato sempre netto, ma la vicenda dei 61 e le accuse di terrorismo caddero sulla fabbrica in un momento in cui già girava molto forte l’idea che si fosse vicini a una grande processo di ristrutturazione. La Fiat dava l’impressione di essere determinata a riconquistare il terreno che aveva perduto negli anni Settanta. Anche i lavoratori sapevano che la situazione stava diventando difficile: tutte le notizie sulla Fiat che andava male, sul fatto che non aveva un’auto di punta per rilanciarsi, sulle vendite della Ritmo che erano un mezzo disastro, avevano determinato in fabbrica un clima difficile e complicato. Contemporaneamente la disciplina interna era saltata già prima della vicenda dei 61. Ormai erano i delegati a controllare il processo produttivo, i capi non facevano più il loro lavoro, si erano ritirati, avevano assunto un atteggiamento disfattista e questo aiutava una crescente disaffezione dal lavoro da parte operaia.
Gabriele Polo: ti riferisci all’ingresso degli ultimi assunti, dei giovani che non avevano alcuna identificazione con il lavoro?
Claudio Sabattini: Sì, quei 10.000 entrati nel ’79. La Fiat motivò la loro assunzione con la necessità di produrre di più, senza mai rendere concrete queste sue affermazioni, perché quello non era certo il momento di maggiore espansione del processo produttivo e noi pensammo che quelle nuove assunzioni servissero per buttare fuori i più anziani. Inoltre c’erano molti fatti che indicavano la volontà della Fiat di creare un clima di sfascio, di voler esasperare le difficoltà. Come l’atteggiamento assunto dai capi che rinunciavano alle loro funzioni, denunciavano di essere minacciati e di non essere difesi dall’azienda e assumevano un atteggiamento aventiniano. In sintesi, la Fiat faceva di tutto per dare la sensazione che la fabbrica non era più governabile, che la violenza dilagava (e con essa il terrorismo), e che c’era bisogno di un punto di svolta, di un trauma. Questo era il clima nella primavera dell’80.
Gabriele Polo: Progressivo deteriorarsi della comunità di fabbrica, sfilacciamento delle gerarchie, i capi che si ritirano, la Fiat che assume i giovani per cacciare gli anziani e poi si accorge che i giovani non lavorano, una situazione di mercato difficile, l’approssimarsi dell’accordo Alfa-Nissan: di fronte a questa situazione il sindacato che fece?
Claudio Sabattini: L’Flm si trovava in gravissima difficoltà perché cominciava a capire che Corso Marconi stava facendo sul serio, stava preparando un’offensiva: questo fu chiaro a tutti con la presentazione della piattaforma aziendale sul forte recupero di produzione modificando i tempi nella primavera ’80. Negli ultimi giorni del ’79 c’era stato un incontro dei responsabili dell’auto della Fml con Mandelli, allora, presidente della Federmeccanica. Si doveva formalizzare il ritiro dei licenziamenti fatti dalla Fiat durante il contratto, secondo una promessa del ministro del lavoro (anche se corso Marconi spiegò subito quanto poco contassero le promesse di Scotti). In quell’occasione con Mandelli discutemmo della situazione generale della Fiat e lui disse qualcosa di illuminante affermando che l’unico modo per risolvere i problemi era licenziare mille agitatori, gli estremisti in fabbrica. Qelli erano considerati il punto cardine di queste vicende, «perché gli operai – sostenne Mandelli – sarebbero anche controllabili se non fossero guidati da avanguardie così dure». E ci fece pure una proposta: quella di metterci d’accordo su come far fuori questi «estremisti», così tutto si sarebbe risolto. Noi rispondemmo che non era possibile, perché era una pazzia pensare che l’Flm si accordasse con la Fiat per licenziare mille persone. Ma l’atteggiamento era molto determinato, faceva capire che non c’era spazio per una trattativa, anticipando ciò che sarebbe successo in seguito. La situazione era così grave che noi ci sforzammo di trovare una via d’uscita alternativa al binomio su cui stava lavorando la Fiat – espulsione dei più combattivi, aumento dei ritmi in fabbrica – e presentammo una piattaforma, centrata sull’organizzazione del lavoro e della produzione in cui si metteva in rilievo come il grande processo di burocratizzazione avvenuto dentro la Fiat impedisse l’efficacia produttiva dell’azienda. Sottolineavamo la crescente burocratizzazione dell’apparato, il numero eccessivo dei controllori rispetto ai produttori, una gestione molto discutibile del sistema di forniture, in sostanza un regime sempre più lassista e un clima di demotivazione crescente.
Gabriele Polo: Avete anticipato di dieci anni l’analisi di Romiti a Marentino, quando lanciò la «svolta» della qualità totale..
Claudio Sabattini: In qualche modo sì. Bisognava reagire all’iniziativa della Fiat che giocava sullo sfascio in fabbrica, esaltandolo, con una piattaforma che mettesse in discussione l’organizzazione del lavoro. Uno dei suoi punti centrali – che non convinse una parte dei compagni torinesi, ma che venne applicato con successo un anno dopo all’Alfa – era l’istituzione dei gruppi di produzione. Pensavamo fosse uno strumento con cui superare molte strozzature del processo produttivo, puntando sul lavoro di team e, per questa via, su una compartecipazione dei lavoratori. Proponevamo di tentare un rilancio della produttività della Fiat attraverso una nuova organizzazione del lavoro e con una ricomposizione delle mansioni. Al contrario, di fronte alla crisi del modello tayloristico, la Fiat pensava – in linea con il pensiero dominante della cultura automobilistica americana – di automatizzare, riteneva che il lavoro non fosse più necessario, che le fabbriche potevano essere completamente robotizzate: automazione e conseguente liquidazione dei lavoratori, che non servivano più, erano troppi. i lavoratori perdevano tutta la loro importanza perché sarebbero stati sostituiti dai robot. Questo era il pensiero dell’azienda. In un atteggiamento di assoluta svalutazione del significato del lavoro, di sua penalizzazione, perché poteva essere facilmente incorporato dalle macchine.
Gabriele Polo: Tutto questo si collocava su uno sfondo più generale, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio di quelli Ottanta, con l’avvento al potere della Thatcher e di Reagan e l’avvio dell’offensiva liberista dal mondo anglosassone all’Europa continentale.
Claudio Sabattini: Esattamente, un clima che venne riassunto perfettamente dall’intervista di Umberto Agnelli a Repubblica dell’estate ’80. La Fiat aveva già scelto quella strada, pensando di potersi rilanciare in un mix di tagli occupazionali e rilancio degli investimenti tecnologici: un passaggio che lo stesso Agnelli considerava difficile, ma che doveva aprire la strada a un nuovo sviluppo. In questa situazione, noi pensammo di reagire con una piattaforma che mettesse in rilievo come l’organizzazione tayloristica fosse ormai talmente burocratizzata da non funzionare più e che quindi servisse un profondo rinnovamento del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro: da qui la proposta dei gruppi di lavoro per creare nuove connessioni all’interno del processo, connessioni che la burocratizzazione aveva allentato e reso difficile. Proponevamo cioè una modernizzazione. Nessuno di noi aveva in testa il superamento del taylorismo, ma pensavamo fosse necessaria una profonda modernizzazione, con il superamento delle linee di montaggio.
Gabriele Polo: Nella primavera dell’80 il quadro si presentava sostanzialmente così: la Fiat aveva in mente un processo di medio periodo di automazione degli impianti, di progressivo alleggerimento del peso e del ruolo del lavoro, di diminuzione degli organici e aumento della produttività individuale; per metterlo in atto doveva cacciare dalla fabbrica quelli che impedivano con il conflitto la realizzazione di questo processo. Quindi un obiettivo politico immediato e un obiettivo produttivo di medio periodo. Voi rispondeste con una piattaforma e una logica contrattuale, tutta tesa a incidere sul processo produttivo e la sua organizzazione. Non era un po’ poco di fronte alla portata di quel progetto aziendale?
Claudio Sabattini: No, perché la nostra era una logica contrattuale che però, per la prima volta, affrontava complessivamente il modello Fiat e chiedeva di inserirlo dentro politiche industriali di settore. Da un lato la modernizzazione dell’impresa e dall’altro il rilancio delle politiche industriali. Di fronte ai problemi in campo pensammo che la cosa migliore era quella di affrontare la situazione proponendo, non semplicemente dicendo “no”. Ammettendo l’abbassamento di produttività, ma affermando che questo non si risolveva facendo lavorare di più, intensificando il processo e i ritmi, ma affrontando tutte le grandi questioni della Fiat, del suo modello produttivo, della sua organizzazione, in modo da poter permettere una modernizzazione del sistema. E chiedavamo una politica industriale di settore. Era una piattaforma che in Cgil fu considerata positivamente, perché non era strettamente contrattuale, ma poneva questioni di respiro più complesso, soprattutto del rapporto tra produzione e politica industriale. A questa piattaforma la Fiat non rispose nemmeno, non la prese neppure in considerazione. Di gruppi di produzione neanche a parlarne, rifiuto dello snellimento delle burocrazie, delle funzioni di comando e di un’organizzazione del lavoro più aperta. Oggi si può dire che arrivammo tardi ad affrontare la crisi, ma in quella piattaforma c’erano tutti i nodi del problema. Noi puntavamo a una modernizzazione e a una democratizzazione, ma la Fiat voleva semplicemente riconquistare l’arbitrio assoluto in fabbrica, riprendersi quelle posizioni di potere che aveva perso nel corso degli anni Settanta: erano due posizioni opposte, c’erano scarsi margini di trattativa. Partendo da quei presupposti che riteneva indiscutibili, fu la Fiat a imporre lo scontro. E il conflitto fu inevitabile.
Gabriele Polo: Se il margine di trattativa era così scarso, il confronto si presentava fin dall’inizio come un muro contro muro: quindi, per evitare il conflitto avevate solo una possibilità, cedere subito..
Claudio Sabattini: Esatto, e questo noi non potevamo farlo, anche perché c’erano tutte le possibilità per costringere la Fiat a tornare indietro e, comunque, noi non potevamo accettare condizioni che comportavano lo smantellamento del sindacato in fabbrica, la cancellazione dei consigli. Questo era il centro del contendere. Tutti i nostri documenti di quel periodo testimoniano che avevamo compreso esattamente il nocciolo dell’operazione: eravamo certi che gli «esuberi» non erano «semplicemente» 14.000, ma erano quei 14.000. Non si puntava semplicemente alla diminuzione degli occupati, ma a un’operazione mirata che doveva far fuori gli ammalati, i più deboli e non utili al processo produttivo e cacciare gli organizzatori sindacali, che poi erano visti dalla Fiat come gli organizzatori del conflitto; insomma l’obiettivo era il Consiglione, cioè quelli che gestivano, controllavano, contrattavano quotidianamente il processo in fabbrica e la condizione dei lavoratori. Questi tre soggetti dovevano essere fatti fuori, in particolare i consigli di fabbrica e coloro che dentro i consigli erano gli organizzatori del potere sindacale. E mai come alla Fiat il potere era prima il potere dei lavoratori e poi il potere sindacale e non viceversa. Cosa che era stata la grande innovazione dei consigli: il potere dei lavoratori veniva prima del potere dei sindacati, il secondo derivava dal primo.
Gabriele Polo: Chi era per la Fiat, il regista, la mente di quest’operazione?
Claudio Sabattini: Cesare Annibaldi. Perseguì con molta determinazione il progetto. A lui si aggiunsero poi molti altri, soprattutto da settembre in poi, ma chi impostò il confronto e chiarì che il problema non era tanto produttivo – che per la Fiat si trattava di riconquistare ciò che corso Marconi aveva perso in termini di controllo sulla forza lavoro e sulla fabbrica dal ’69 in poi – fu Cesare Annibaldi.
Gabriele Polo: Si arrivava così a una situazione di scontro inevitabile. C’erano due linguaggi e due logiche opposti. Da come la racconti, al punto di partenza della vicenda, si poteva pensare che la situazione si dovesse per forza risolvere con la vittoria dell’uno o dell’altro, ben difficilmente con un compromesso. Quali margini di mediazione ci potevano essere tra queste due posizioni?
Claudio Sabattini: Io non ho mai pensato – mai – che si potesse semplicemente vincere, però pensavo, e penso ancora, che si potesse arrivare a un compromesso, che quella sconfitta non fosse inevitabile – come ha poi affermato l’interpretazione prevalente sulla conclusione della vertenza, e che, perciò, quelle lotte erano state inutili, perché si sarebbe dovuto capire subito l’inevitabilità dell’esito finale. Ovviamente pensavo a un compromesso sociale, che non si fondasse più esclusivamente sui rapporti di forza, ma che affrontasse e contrattasse i nodi della crisi taylorista. Per questo c’era bisogno di una politica generale che si facesse strumento di un nuovo modello di sviluppo. Al contrario, la situazione politica si stava evolvendo molto rapidamente e si apriva una nuova fase, quella del rapporto esclusivo tra socialisti e Dc – liquidata ormai ogni possibilità della politica berlingueriana dell’alleanza delle grandi masse – e sul piano delle scelte economiche si profilava una situazione di stretta con l’abbandono della svalutazione competitiva e la decisione di Andreatta di stabilire cambi fissi. Una fase di stretta che avrebbe ridotto anche i margini di mediazione sociale. Si era aperta quell’era di deflazione che stava alla base della politica sindacale dell’Eur, nell’illusione che il contenimento salariale avrebbe salvato l’occupazione. Cosa che si dimostrò non vera allora, così come si dimostra non vera oggi: nel ’93 abbiamo inaugurato la politica dei redditi, ma tra questa e l’occupazione non c’è alcun rapporto preciso.
Gabriele Polo: Va ricordato che dell’80 è anche l’avvento di Ciampi a governatore della Banca d’Italia e il suo primo discorso fu contro gli automatismi salariali, in sostanza per la liquidazione della scala mobile.
Claudio Sabattini: Esatto. Il governatore della Banca d’Italia era stato il primo a dare, da noi, un messaggio preciso. Contemporaneamente, dall’altra parte dell’oceano, Reagan decideva che l’aumento di produttività si poteva fare solo tagliando l’occupazione e liquidando il sindacato. Iniziando dalla militarizzazione dei controllori di volo. Era un segnale fortissimo. Aveva già iniziato la Thatcher a liquidare quelli che chiamava i «poteri sindacali», ma è stato Reagan ad aggredire il cuore del problema: come si aumenta la produttività? Tagliando l’occupazione e facendo fuori il sindacato, che limita la possibilità di licenziare. Quest’operazione reaganiana era esattamente ciò che aveva in mente la Fiat. Naturalmente dentro la Fiat c’era chi pensava che era possibile farlo e chi riteneva che la situazione italiana lo impedisse, considerata qual era la forza del sindacato. Io continuo a credere che Umberto Agnelli tentasse un compromesso e in fondo la sua intervista, pur insistendo sui licenziamenti, lasciava aperto uno spiraglio quando chiedeva al governo di fare la svalutazione, di superare i cambi fissi. Cosa che avrebbe comportato un rilancio delle esportazioni, facendo calare i prezzi italiani rispetto al marco e al dollaro. Tuttavia nelle classi dirigenti stava prendendo piede la convinzione che bisognasse cambiare rotta. La svolta reaganiana sarebbe poi diventata un faro per tutti. Il governo italiano abbandonava l’ipotesi della svalutazione competitiva; era già passato ai cambi fissi. Ciampi invocava il taglio della scala mobile, le imprese inseguivano la produttività con i licenziamenti, il lavoro – con i suoi diritti e poteri – veniva oscurato, diventava «irrilevante» e politicamente non interessante. Lo scontro alla Fiat, il suo esito, diventavano essenziali e paradigmatici.
Gabriele Polo: Come arrivarono le confederazioni a questo scontro, quale ruolo ebbero?
Claudio Sabattini: Il presupposto era la scelta dell’Eur, l’illusione che una disciplina salariale, un contenimento delle richieste sindacali, potessero difendere l’occupazione. Poi c’era stata la famosa intervista di Lama che aveva spiegato che in certe situazioni gravi e in presenza di industrie decotte, bisognava poter licenziare. Lama infatti pensava al contenimento salariale in nome dell’occupazione e alla possibilità di licenziare per le imprese senza prospettive di rilancio. Veniva così presentata come una posizione molto pragmatica e concreta. Tutto ciò sfumava di fronte all’inaffidabilità della controparte padronale, che pensava esattamente l’opposto sul piano occupazionale, perché riteneva che si dovesse tagliare l’occupazione, perché donne e uomini sarebbero stati sostituiti dalle macchine. Inoltre quella sui licenziamenti era una posizione estrema perché non c’erano possibilità di ricollocare i licenziati in altre aziende. La conferma di tutto ciò è che il sindacato e le categorie industriali dopo l’80, utilizzando la 675, per questo appositamente approvata dal parlamento, affrontarono i processi di ristrutturazione quasi esclusivamente con lo strumento degli ammortizzatori sociali i quali, per essere usati, richiedevano l’accordo fra le parti. Anche la Fiat nell’80 sapeva di dover ricercare un’intesa con il sindacato, far riconoscere ad esso l’esistenza di esuberi come condizione per l’utilizzo degli ammortizzatori sociali; da qui l’assoluta necessità dell’accordo. In realtà con la conclusionne della vertenza Fiat fu definita anche nei fatti la struttura degli esuberi: erano quelli che «rompevano le palle», quelli che erano malati, quelli che non erano in grado di dare prestazioni significative. Il fatto che questi processi di ristrutturazione avessero tagliato occupazione senza aggiungere altro, senza dare alcuna certezza sulle politiche industriali, lascerà molto spazio all’iniziativa padronale aderendo alla cultura reaganiana che si stava imponendo in tutto il mondo capitalista. Per questo il confronto con le confederazioni sulla vertenza Fiat diventò subito molto chiaro: da una parte l’Flm che ammetteva l’esistenza di problemi legati alla scarsa produttività della Fiat, ma precisando che se avessimo accettato gli esuberi come responsabili della crisi della Fiat si sarebbe aperta per noi una fase incontrollabile e incontrollata, perché sapevamo quali erano quegli esuberi da liquidare. La linea della Fiat non era semplicemente una linea di rilancio della produttività ma passava attraverso l’eliminazione di strati sociali precisi. Dall’altra parte le confederazioni le quali sostennero l’inevitabilità della ristrutturazione e soprattutto che l’Flm non ne capiva l’inderogabile necesssità.
Gabriele Polo: E questo, da parte confederale, senza avere alcun progetto.
Claudio Sabattini: Nessuno. Tant’è vero che, dopo la sconfitta, la spiegazione fu che i sindacati dei metalmeccanici non avevano capito le nuove tecnologie; mentre di nuove tecnologie in Fiat non c’era ancora molto, erano presenti solo processi iniziali di automatizzazione. Quel che, invece, c’era – e molto – era l’idea americana e giapponese che in fondo si potesse far a meno degli operai, idea che venne utilizzata come ideologia d’attacco: «abbiamo l’alternativa al lavoro umano, l’automazione».
Gabriele Polo: Ma il fatto cui prima accennavi, che l’accordo comunque ci doveva essere, pur nella mancanza di una linea politica e industriale precisa, dava alle confederazioni una grande forza, perché la Fiat doveva fare l’accordo. Come fu usata questa potenzialità?
Claudio Sabattini: Si confrontavano due risposte divaricanti: una cosa è fare un accordo accettando la mobilità esterna e quindi il licenziamento, un’altra fare un accordo respingendo la mobilità esterna e affermando che si può rinnovare la fabbrica attraverso quello che, in fondo, era un contratto di solidarietà – cioè la cassa integrazione a rotazione – che non permetteva la divisione tra i lavoratori e dava contemporaneamente risposte sul piano produttivo poiché abbassava i costi di produzione. Ma la Fiat non volle mai accettare questa seconda ipotesi, perché intendeva eliminare delle persone precise. E la rottura dentro il sindacato, se di questo si può parlare, avvenne sull’accettazione degli esuberi per la mobilità. Questo fu il punto chiave della discussione di merito nel sindacato. La Fiat fin dall’inizio spinse sulla mobilità. E quando cadde il governo Cossiga fece una grande operazione propagandistica – la seconda dopo quella sul rapporto conflitto/terrorismo – dichiarando che, data la situazione di crisi del governo, per il bene del paese, rinunciava ai licenziamenti se si fosse risolto il problema entro cento giorni. Questa fu la mossa determinante, provocò una svolta: infatti alleggerì in modo sostanziale le preoccupazioni del mondo politico e dell’opinione pubblica soprattutto torinese. La paura di licenziamenti di massa veniva così superata anche se per i lavoratori della Fiat la cig a zero ore e l’uso della mobilità non modificavano la convinzione che si sarebbe arrivati ai licenziamenti. Ed è un punto chiave ancora oggi, perché da allora è il modello prevalente: quelli lì se ne devono andare, gli anziani, gli ammalati, i deboli. Tutte le mobilità sono così.
Gabriele Polo: Ma ciò che rimane poco chiaro è l’atteggiamento delle confederazioni di fronte a questa strategia. O c’era un’incapacità di comprendere ciò che stava accadendo, oppure si trattava di una volontà precisa.
Claudio Sabattini: È stata una conseguenza della linea dell’Eur. I gruppi dirigenti non ritenevano che fosse in corso un attacco padronale – modello Reagan – che intendeva riconquistare il potere in fabbrica e cancellare gli anni Settanta, ma che la Fiat aveva semplicemente dei problemi di ristrutturazione. E che per affrontare questa ristrutturazione le strade erano quelle note, quindi perché fare tanto casino? perché imbarcarsi in un conflitto così difficile? Solo in fabbrica c’erano quelle forze, rappresentate nel Consiglione e tra le avanguardie più attive, che invece giustamente pensavano che la Fiat li volesse far fuori e licenziare, che erano loro l’oggetto di tutto il confronto; e misero in campo una grande resistenza. Tant’è vero che la Fiat per poter passare ebbe bisogno di un altro atto traumatico, la pubblicazione delle liste dei cassintegrati ai cancelli, in modo tale che chi vi era segnato veniva tagliato fuori, mentre quelli che rimanevano dentro erano spinti a sottrarsi alla lotta. Con il paradosso che, provocando una rottura tra i salvati e i sommersi, coloro che erano stati messi in Cig a zero ore prendevano il trattamento salariale della cig, quelli che stavano davanti ai cancelli in lotta non percepivano il salario.
Gabriele Polo: Come si cercò di governare questa divisione?
Claudio Sabattini: Con il blocco dei cancelli – risposta moderata rispetto a chi voleva occupare lo stabilimento – con uno sforzo notevole, che nessuno ha mai apprezzato; infatti se non avessimo deciso il blocco dei cancelli ci sarebbe stata l’occupazione della fabbrica. Ma la cosa essenziale è stata la divisione dei lavoratori con l’affissione delle liste ai cancelli mentre era in corso un negoziato. La sera prima di pubblicarle noi abbiamo incontrato la Fiat che non ci disse nulla. Noi temevamo quell’atto e chiedemmo all’azienda di non farlo. Loro risposero: «ci penseremo». Ma le liste erano già pronte e la loro affissione al primo turno delle 6 cambiò completamente il quadro: non c’erano più i licenziamenti, c’era la cassa integrazione e la mobilità che promettevano la sicurezza del rientro al lavoro per coloro che non avebbero trovato un nuovo impiego. Una promessa non vera, come ora si sa, ma fortemente sbandierata in quei giorni.
Gabriele Polo: Quale fu il comportamento dei partiti di sinistra durante i 35 giorni?
Claudio Sabattini: Vale il discorso fatto a proposito delle confederazioni: l’Flm venne isolata sul punto essenziale di analisi: tutti accettarono il fatto che fosse un «semplice» processo di ristrutturazione, e nel momento in cui non c’erano più i licenziamenti, con gli ammortizzatori sociali si profilava un modo soft per uscirne. Quindi andava bene così. I partiti accettarono questa logica, in particolare i socialisti, ma anche il Pci.
Gabriele Polo: Ma dentro il Pci ci fu uno scontro articolato. Si è discusso molto del ruolo di Berlinguer, del suo isolamento finale…
Claudio Sabattini: L’atto più importante di Berlinguer fu quello di portare la solidarietà ai lavoratori – una cosa politicamente eccezionale – e dire che per quanto i lavoratori e i sindacati avessero retto lo scontro, il Pci li avrebbe sostenuti e aiutati. Ma su quale soluzione adottare, quale strategia mettere in atto, Berlinguer fu completamente sostituito da Chiaromonte che condivideva la linea dell’inevitabilità del processo di ristrutturazione e le sue conseguenze. Fu proprio sugli strumenti per affrontare la crisi, determinanti perché spiegavano quale sarebbe stato il senso del processo, che tutto il nostro isolamento divenne evidente. Non c’era più la pressione perché i licenziamenti erano rientrati e tutti tiravano un sospiro di sollievo, finalmente si apriva una fase di trattativa e il punto chiave diventava come fare la trattativa: si doveva chiedere il ritiro delle liste per aprire il dialogo oppure no? Lì fummo messi in minoranza apertamente nel gruppo dirigente sindacale; fu detto che non era possibile porre una pregiudiziale, perché avrebbe comportato una grande inutile perdita di tempo. Bisognava chiudere il più rapidamente possibile. E quindi la trattativa successiva fu fatta con i presìdi ai cancelli, con i cassintegrati che si accanivano mentre quelli salvati, come era inevitabile, ammorbidivano la posizione. Così si andò alla fase finale della trattativa avendo accettato la cassa integrazione a zero ore. E il Pci torinese giocò una carta decisiva nel far passare la linea della mobilità.
Gabriele Polo: In questo non c’era un vizio di presunzione, credere di poter governare la fabbrica anche con la mobilità e l’espulsione di moltissimi delegati e quadri?
Claudio Sabattini: Certo, anzi vi fu una parte consistente, certamente del Pci torinese e anche una parte confederale, che pensava che tutto sommato far fuori questi settori turbolenti avrebbe permesso un’evoluzione positiva della situazione in Fiat. Si muovevano sulla linea dell’Eur, sull’inevitabilità del processo di ristrutturazione, dei tagli occupazionali e sul conseguente massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali. Pensando che gli espulsi avrebbero trovato un altro posto di lavoro. Noi dicemmo che buttare fuori dalla fabbrica 20.000 persone e immetterle sul mercato del lavoro torinese, in cui non c’era nessuna possibilità di impiego alternativo, equivaleva al licenziamento. Mentre sui giornali di quei giorni venivano sparate cifre su occasioni nella pubblica amministrazione, nei servizi e nella piccola impresa. Tutte balle, che però pesavano, e che si fondavano tutte su un argomento: «si tratta di un processo di ristrutturazione, si usano gli ammortizzatori». Noi rispondavamo che si trattava anche di un processo di conquista del dominio in fabbrica da parte del padronato, di liquidazione del potere dei lavoratori e del sindacato. Adesso è facile dire che è andata a finire proprio così, ma non era impossibile capirlo anche allora.
Gabriele Polo: Il rapporto con Torino, con la sua società, ebbe un grande peso. Le trattative si facevano a Roma, il processo riguardava tutta Fiat auto, ma il cuore era Torino. In un primo momento la città, con le sue istituzioni, rispose bene, solidarizzando con gli operai. Poi negli ultimi giorni ci fu una precipitazione, come se quei cancelli fossero ormai completamente isolati dal resto della città. E fin dall’inizio le espressioni di solidarietà dal mondo della cultura furono veramente poche. C’era un senso di isolamento rispetto agli anni precedenti, quando gli operai parevano essere egemoni? Come la ricordi?
Claudio Sabattini: In quei giorni le posizioni istituzionali cambiarono rapidamente, da un giorno all’altro e la chiave di volta, che incise su tutte le sensibilità, fu l’annuncio della Fiat di non fare più i licenziamenti. Perché a quel punto prevalse il bisogno di risolvere tutto e in fretta. Mentre prima molti premevano sulla Fiat, poi tutti iniziarono a premere su di noi. La manovra della Fiat portò a questo cambiamento delle posizioni dell’opinione pubblica e delle istituzioni torinesi, che fecero propria la parola d’ordine «salvare la Fiat». Per quanto riguarda gli intellettuali ci fu, nei primi giorni della vertenza, solo un documento, firmato anche da Giugni, in appoggio agli operai. Alla fine non ci fu nulla, fummo lasciati soli, perché la linea del «salvare la Fiat» diventò prevalente per tutti, tranne per chi capiva che ciò significava non solo un cambiamento di fase, ma un sacrificio imposto ai lavoratori. La società e la città di Torino scelsero la Fiat pensando che salvando la Fiat salavano se stesse e la città ritenne che ad opporsi all’accordo erano soltanto la Fiom e dei gruppi estremisti incapaci di comprendere che ormai le cose erano cambiate, che quel passaggio traumatico era inevitabile. Le solite cose. L’assenza di solidarietà fu un’esperienza tremenda. È stato il capolavoro della Fiat che prendeva in pugno la situazione: avendo già ottenuto la cassa integrazione, avendo ottenuto la spaccatura della fabbrica – tra i sommersi e i salvati – con il consenso sempre crescente delle forze politiche e della città, la Fiat sferrava il colpo finale. Invece di accontentarsi di ciò che aveva già ottenuto e di andare a una soluzione, voleva tutto. Come fare? Bisognava presentare Torino come una città che viveva un momento drammatico. E fu la drammatizzazione della marcia.
Gabriele Polo: Ma voi non avevate sentore di quella marcia che si stava preparando da giorni?
Claudio Sabattini: Molti di noi della Flm non credevano fosse possibile, e poi non trapelò nulla. C’erano già state iniziative di questo tipo ma si riducevano a un migliaio di persone che discutevano in piazza. Per cui non capimmo in tempo, mentre oggi è chiarissimo e dimostrabile che la Fiat bloccò la trattativa la sera del 13 aspettando proprio la mattina del 14. Quando arrivò da Torino la notizia che l’assemblea si era trasformata in una marcia – molto meno dei 40.000, ma molti di più dei soliti – Romiti diede il colpo finale: «Ciò che abbiamo trattato fino a ieri – disse – non basta più, la città è con noi». La marcia fu preparata bene, in grande silenzio e organizzata direttamente dallo stato maggiore Fiat. È ormai noto l’episodio di Callieri che dà il via libero ad Arisio dicendogli «fate e fate bene». Fu organizzata con pullman da tutta l’italia. Ammettendo che anche Cgil, Cisl e Uil, come noi, non sapessero nulla, non c’è dubbio che le confederazioni, che ormai erano le uniche che trattavano direttamente con Romiti, non reagirono. Ammisero la sconfitta e fecero scrivere il testo dell’accordo a Romiti.
Gabriele Polo: Ma si poteva reagire?
Claudio Sabattini: Se l’indicazione dei gruppi dirigenti confederali fosse stata unitariamente di fare una grande manifestazione a Torino, in due giorni la si faceva, con ben più di 40.000 persone. Ma non se ne fece nulla. Infatti passò integralmente la linea della Fiat che era ancora poco rispetto a quello che passerà negli anni successivi sulla gestione dell’accordo e al suo peggioramento e alla mancanza di ogni rispetto dei tempi e dei patti. Ma quello fu l’avvio. Per la Fiat fu un’operazione con pochi rischi: se la marcia si rivelava un successo, benissimo; altrimenti andava bene lo stesso, tanto gli elementi strategici li aveva già tutti in mano. In discussione ancora c’erano possibilità di rotazione, che per noi costituivano la mediazione finale. Senza rotazione era impossibile qualsiasi gestione dell’accordo. E così vennero fatti fuori tutti i migliori quadri di fabbrica.
Gabriele Polo: Eppure tutto questo fu presentato come una «non sconfitta».
Claudio Sabattini: Anzi come una vittoria: «Non è vero che ci sono i licenziamenti e quelli che vanno in Cig rientreranno». Formalmente era scritto così. Solo che lo stato maggiore non si rendeva conto che l’esercito non credeva a nulla di ciò che gli veniva detto. E la discussione del Consiglione costituì proprio il chiarimento che affermava: «avete accettato la mobilità, noi siamo morti». Ovviamente poi si scatenarono tutti gli opportunismi del mondo, molte divisioni erano passate, c’erano tanti elementi di stanchezza e difficoltà, perché la battaglia era stata lunga. Tutti stanchi tranne il Consiglione, che era vigilissimo, che aveva capito tutto e spiegava che quell’accordo non diceva la verità, perché una parte non sarebbe mai più rientrata. Come è poi successo.
una sconfitta evitabile
Gabriele Polo: Quale fu in quei 35 giorni il rapporto tra la lotta alla Fiat e i lavoratori delle altre fabbriche, il resto del mondo del lavoro salariato? C’era, come è stato detto in seguito, un progressivo isolamento dei lavoratori della Fiat?
Claudio Sabattini: Ci sono state diverse sensibilità e diverse interpretazioni. Quelli che venivano da Bologna o da Brescia a fare i picchetti sostenevano che negli ultimissimi giorni la situazione era diventata molto penosa, poco sostenibile. Credo che in sostanza sia vero che negli ultimi giorni c’era un certo sfilacciamento, ma derivava dall’affissione delle liste di cassa integrazione. Non a caso la sensazione di isolamento e di divisione iniziò proprio in quel momento. Era come presentire la sconfitta.
Gabriele Polo: Ma fuori da Torino, c’era la percezione che stava avvenendo una svolta generale per tutto il movimento operaio, che almeno per questo quella era una lotta generale?
Claudio Sabattini: No, almeno per due motivi. In primo luogo, perché la Fiat era sempre stato un punto di riferimento per il movimento operaio – un elemento simbolico forte – i cui problemi venivano però sempre risolti dai lavoratori Fiat. E i 35 giorni furono la prima volta, dai lontani anni Sessanta, in cui si rendeva necessario un supporto esterno. E ciò veniva percepito come un ritorno all’era delle difficoltà, degli «anni bui». Poi vi era un altro sentimento: il peso della Fiat, delle sue vicende e quello delle opinioni dei suoi lavoratori, era così forte su tutto il movimento operaio italiano da provocare una reazione di fastidio, silenziosa ma diffusa. Lì si facevano le grandi vertenze, le grandi contrattazioni, le lotte della Fiat erano seguite da tutto il paese, da tutti i giornali, condizionavano o addirittura facevano cadere i governi. Tutto ciò che accadeva a Mirafiori diventava un fatto nazionale. Negli anni Settanta si era creato un rapporto di amore-odio, tra i lavoratori Fiat e il resto del movimento operaio: importantissimi, ma troppo incombenti. Tutto questo non poteva che provocare divisioni, che alla fine si tradussero in un silenzioso «se la cavino da soli». La Fiat era molto importante, la più grande impresa italiana, Mirafiori era la più grande fabbrica europea, ma era davvero troppo dare la sensazione che tutto ciò che avveniva altrove non aveva importanza decisiva rispetto a ciò che succedeva negli stabilimenti di Torino. Così, alla fine, pagammo questa enfasi eccessiva: furono fatti scioperi di categoria durante i 35 giorni e anche uno sciopero generale nazionale, ma persino la nostra categoria – quella su cui il peso di ciò che stava accandendo avrebbe dovuto essere molto evidente – alla fine non reagì, si comportò come se non avesse perso un pezzo fondamentale della sua storia, della sua forza e della sua tradizione.
Gabriele Polo: In qualche modo tutti volevano liberarsi di quelli lì…
Claudio Sabattini: Sì, liberarsi di quella supremazia, di quel primato e questo sentimento coincideva con il pensiero di chi riteneva che una volta normalizzata la Fiat tutto sarebbe andato meglio. Un pensiero che certamente avevano in testa le confederazioni, perché quegli operai erano l’ostacolo principale alle politiche dell’Eur, non tanto nel merito sindacale, quanto perché rappresentavano un modello da liquidare, quello che metteva al centro il potere in fabbrica. Un potere che non era condiviso, come accadeva altrove, con le strutture esterne del sindacato, ma che era proprio il potere dei lavoratori Fiat e dei loro rappresentanti. Era una forma pura, perché il consiglio di fabbrica e i lavoratori che lo eleggevano avevano un’importanza decisiva su tutte le decisioni e la gestione esterna, pur considerata importante, aveva un ruolo di rappresentanza. In tutte le vertenze Fiat la delegazione si riuniva tutti i giorni con i segretari nazionali, per esaminare l’andamento della vertenza, per decidere che fare il giorno dopo, e tutti sapevano che non si poteva fare nulla, non si poteva prendere alcuna decisione se prima non era stata discussa con i delegati e presa insieme a loro.
Gabriele Polo: Ma tutto ciò era un vincolo o una ricchezza?
Claudio Sabattini: Io ho sempre pensato che fosse una ricchezza, perché rappresentava in maniera molto forte lo spirito originario del modello nato dalle lotte del ’69. Il fatto che il potere dei lavoratori arrivava dall’interno delle fabbriche e si estendeva all’esterno, alle politiche generali del sindacato; non viceversa. Era una concezione che comportava una situazione di continuo conflitto con il sindacato. E proprio per questo, durante i 35 giorni, il sindacato cominciò a pensare che se non si fosse normalizzata la conflittualità alla Fiat e cancellata quella contrattazione continua su tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro – dalla condizione alla prestazione – non sarebbe stato possibile passare a una nuova fase.
Gabriele Polo: Tuttavia questa grande forza, questo potere, questo senso della rappresentanza molto legato alle condizioni e alla loro percezione era diventato anche un boomerang, isolando questi delegati e questi operai, rendendoli fastidiosi non solo ai vertici confederali, ma anche agli altri lavoratori. Pesavano troppo, forse si era enfatizzato troppo il loro peso?
Claudio Sabattini: Era inevitabile quell’enfasi, essendo una fabbrica così importante, essendo la Fiat «padrona» dell’Italia, era uno squilibrio difficilmente evitabile. Era tutto molto concentrato. Ma era vero che se una politica non fosse passata alla Fiat era come non farla, tra i meccanici. C’era proprio un discrimine, era una condizione necessaria, frutto di una situazione oggettiva, che però aveva assunto una forte soggettività interna, dove c’erano dei quadri operai di altissimo livello.
Gabriele Polo: Sul livello politico e culturale di quegli operai si è anche detto che essi erano molto bravi a lavorare in negativo, a controllare la fabbrica attraverso il blocco delle iniziative padronali, perché usavano a modo loro la rigidità del taylorismo, ma che erano molto meno bravi nel proporre politiche alternative. Che, insomma la loro forza d’interdizione diventava la loro debolezza di proposizione. Condividi questa lettura di quella generazione operaia?
Claudio Sabattini: Vorrei ricordare che alla Fiat sono stati fatti gli esperimenti più importanti degli anni Settanta. E proprio a partire dal conflitto e dalla sua organizzazione, per estendersi alla stessa produzione. I consigli di fabbrica vennero organizzati in quel modo – con l’elezione diretta, con tutti elettori e tutti eleggibili – perché dovevano rappresentare direttamente la condizione del lavoratore e alla Fiat tutto doveva essere contrattato. Si pensi al controllo delle lavorazioni attraverso i tabelloni: fu una conquista importante dei lavoratori Fiat che permetteva loro di sapere quanto e cosa stavano facendo. Quei tabelloni sono usati ancor oggi, con la differenza che non sono controllati dai lavoratori ma dall’azienda, mentre prima dell’80 nell’indicazione del flusso e degli obiettivi c’era la possibilità di verificare continuamente la coerenza tra ciò che era stata contrattato e ciò che veniva fatto. Sempre agli inizi degli anni Settanta fu messo in atto il controllo sui tempi di lavoro, con le saturazioni istantanee che esistevano praticamente solo alla Fiat e con il comitato di cottimo, del ’71, che attraverso la contrattazione continua dei tempi rimase per molto tempo uno degli assi fondamentali di tutta l’azione sindacale. In altre parole, il modello taylorista più alto aveva portato a un controllo dello stesso modello, proprio nella parte decisiva della fabbrica taylorista. Ed è per questa ragione che alla Fiat vennero fatti esperimenti essenziali e decisivi sulla condizione di lavoro. E poi bisogna tenere conto del fatto che alla Fiat era nata la validazione consensuale, un elemento allora essenziale per la pratica sindacale, per cui le condizioni e le prestazioni di lavoro potevano essere accettate solo se c’era l’accordo dei lavoratori, al di là delle regole «scientifiche»: un ambiente era considerato sano se i lavoratori lo ritenevano tale, il rumore era sopportabile se i lavoratori lo accettavano… e via di questo passo. Sull’ambiente, sull’impiantistica, sull’organizzazione tecnologica, sulle linee di montaggio, sugli organici, sul controllo complessivo della fabbricazione, in quegli anni vennero raggiunti dei risultati tra i più rilevanti nel mondo della grande fabbrica. Questo dice che non è assolutamente vero che vi erano semplicemente dei conflitti, degli scontri coi capi. No, vi era una situazione che aveva portato a contrattare tutto. Certamente vi erano tendenze diverse, riconosciute dagli stessi lavoratori e dal sindacato: le carrozzerie di Mirafiori erano più portate a risolvere i problemi dei tempi, della condizione e della prestazione con una contrattazione basata quasi esclusivamente sui rapporti di forza, mentre alle meccaniche l’elemento di controllo era affidato anche a strumenti tecnologici.
È così, con la storia della contrattazione della prestazione lavorativa, che si spiega perché era impossibile modificare quella pratica e la sua struttura di gestione con un colpo di mano, come voleva fare la Fiat. Perché si trattava di cose vissute, costruite, non imposte o offerte dall’alto. C’erano certo dei contributi culturali che venivano dall’esterno – come tutta la teoria della validazione consensuale – ma l’esperienza fu fatta, e consapevolmente costruita. Per questo, dal punto di vista della cultura operaia, ciò che chiedeva la Fiat all’inizio dell’80, rappresentava la negazione, il rovesciamento della vita di un decennio, producendo uno scontro assolutamente frontale tra due modi di pensare la fabbrica: la Fiat pensava all’unilateralità del comando, gli operai pensavano invece che tutto doveva essere contrattato sulla base delle loro condizioni.
Gabriele Polo: Però questa grande capacità di conoscere e controllare la fabbrica, a partire dalla sua realtà concreta, può anche trasformarsi in un elemento di debolezza se non c’è la capacità di portarle all’esterno; e così si spiega l’isolamento che si è verificato negli ultimi giorni della vertenza. È come se quegli operai si fossero mossi in un mondo che, dalla seconda metà degli anni Settanta, cominciava a essere separato, diverso dall’esterno, mentre fuori le cose cambiavano velocemente.
Claudio Sabattini: Nella società, come si è detto, si stava definendo e costruendo una teoria e una pratica, ovvia dal punto di vista capitalistico, che affermava la supremazia delle ragioni dell’impresa sulle condizioni dei lavoratori. Era in corso un lento capovolgimento della cultura industriale – ben spiegata da Giovanni Agnelli in un’intervista ad Arrigo Levi del 1983 – per cui gli interessi dell’impresa sono al di sopra di tutto, primari rispetto agli interessi dei lavoratori. Veniva rilanciato un principio che già faceva parte da sempre della filosofia Fiat, si ritornava al celebre «ciò che va bene alla Fiat va bene all’Italia». Si decretava la coincidenza tra interessi aziendali e interessi generali del paese dentro l’impresa. Quest’impostazione trovò molto spazio nella vertenza dei 35 giorni, quando si pensava che ci fosse solo un problema di ristrutturazione e che prioritario era salvare l’impresa a costo di qualunque sacrificio. Come affermava la linea dell’Eur, il suo mito del «contenimento salariale che salva l’occupazione». Ma dall’altra parte, nel padronato – a partire dalla Fiat –, la linea che veniva assunta sosteneva che l’aumento della produttività passava per il taglio dell’occupazione; non con interventi sull’organizzazione del lavoro (come era avvenuto per le isole svedesi che miglioravano competitività e anche condizioni di lavoro), ma col taglio dell’occupazione accompagnato da un inevitabile processo di intensificazione del lavoro. Accanto all’altra ideologia di quel periodo, quella per cui l’innovazione di processo – l’innovazione tecnologica – avrebbe risolto molti dei problemi che erano stati alla base dei conflitti di fabbrica. Questa «nuova» cultura che stava prevalendo su tutta la società si scontrò, perché era incompatibile, con quella dei lavoratori Fiat, che avevano reso concreta un’evidente supremazia delle condizioni di lavoro sulle ragioni dell’impresa.
Gabriele Polo: In sintesi si può dire, fissando tre protagonisti, i lavoratori Fiat, la dirigenza Fiat e il sindacato, che i primi due avevano perfetta conoscenza di ciò che stava accadendo, il terzo molto meno.
Claudio Sabattini: I lavoratori Fiat capirono immediatamente la portata dello scontro, ma – almeno fino a un certo punto – anche loro pensavano che si sarebbe arrivati a una mediazione della proprietà, come era accaduto spesso. Però Umberto Agnelli era stato sostituito, tutto il potere di contrattazione per l’impresa era stato affidato a Romiti, la famiglia diceva che si sentiva estranea a ciò che stava accadendo e che questo era un bene per tutti… Si dirà successivamente che Mediobanca aveva posto come condizione per intervenire in Fiat che la famiglia si facesse da parte per affidare tutto il potere a Romiti, che era libero da ricatti di ordine affettivo o politico. E il nuovo gruppo dirigente aveva la piena coscienza della portata dello scontro in atto, l’obiettivo di imporre – attraverso i tagli occupazionali, l’aumento dei ritmi e la sostanziale liquidazione del potere dei consigli – il ritorno alla normalità del potere gerarchico sui lavoratori. Per fare questo il punto essenziale era la mobilità che permetteva di scegliere chi cacciare: gli ammalati, gli inidonei, i combattivi. Anche perché quell’avanguardia non era mica tanto ristretta: si trattava di 2000 lavoratori. E le decisioni del Consiglione trascinavano quella parte di lavoratori moderati – presenti da sempre alla Fiat – che decidevano di volta in volta con chi stare, scegliendo in genere il più forte. Quando fu messa in discussione la forza del potere consiliare, quella massa fece altre scelte.
Gabriele Polo: Ma, insisto, perché c’era una scarsa coscienza nelle confederazioni sulla partita che si stava giocando?
Claudio Sabattini: No, non parlerei di scarsa coscienza, ma di una cosa diversa. Anche quelli tra noi più legati direttamente ai lavoratori e alle strutture interne come la Quinta lega, pur capendo qual era il vero obiettivo della Fiat, non avevano la consapevolezza dei grandi fenomeni mondiali, non comprendevano che ciò che veniva dagli Usa era qualcosa che stava per modificare profondamente le relazioni sociali in tutto il mondo occidentale. Se avessimo avuto questa coscienza, se quella americana fosse stata considerata una tendenza del padronato occidentale, forse sarebbe stato più semplice affrontare la discussione dentro il sindacato, tradurla cioè in termini strategici, perché le due posizioni che si confrontavano rappresentavano due estremi, ma entrambi interni al mondo Fiat, con punto di riferimento esclusivo la Fiat: chi diceva che era una ristrutturazione naturale dell’azienda e chi diceva che era un fatto esclusivamente di potere dell’impresa. Questi due estremi in qualche modo si tenevano e giocarono negativamente, perché era proprio nella valutazione del significato di quella situazione particolare che ci si divise. Se non si vogliono fare processi alle intenzioni si può dire che vi erano due posizioni estreme, anche se era chiarissimo che la Fiat voleva raggiungere quell’obiettivo e che non era in gioco il licenziamento di 14.000 o la Cig di 23.000 ma erano proprio quei lavoratori che si volevano eliminare. Insomma, si confrontarono due interpretazioni aziendalistiche, entrambe chiuse dentro la Fiat, prive della capacità analitica di misurarsi con fenomeni generali.
Gabriele Polo: Una carenza d’analisi e un sostanziale provincialismo.
Claudio Sabattini: Sì, consideravamo l’Italia un mondo a sé e la Fiat un mondo in quel piccolo mondo, l’uno e l’altro così eccellenti che non avevano bisogno di confrontarsi con altri modelli. Se fossimo stati tutti meno provinciali probabilmente la discussione e gli scontri avrebbero avuto una consapevolezza diversa. Questo per il sindacato. Mentre per quanto riguarda i lavoratori della Fiat tutto ciò era impossibile, per loro era una questione di vita o di morte, interveniva sul loro sangue, sulla loro carne, sull’elemento chiave della loro collettività perché annunciava un peggioramento radicale della loro condizione.
Gabriele Polo: Quel provincialismo spiega anche il riduzionismo con cui fu letta successivamente la vicenda?
Claudio Sabattini: Si, e spiega anche perché sia stato dato il giudizio dell’inevitabilità di quelle conclusioni, che fu la cosa più devastante per i protagonisti.
Gabriele Polo: Veniamo a quelle conclusioni e partiamo dall’azienda. In tutta la vertenza e anche nei giorni finali la Fiat, la proprietà, mostrarono parecchie incertezze, che avallano la tesi secondo cui la partita rimase aperta fino all’ultimo. Addirittura alla vigilia della marcia dei capi ci fu un intervento della proprietà che sostanzialmente diceva «chiudiamo anche se non riusciamo a portare a casa tutto». C’era davvero quest’incertezza nello snodo degli ultimi giorni?
Claudio Sabattini: Si, anche se tutta la vertenza fu condotta in modo molto duro, tutti i 35 giorni furono pieni di incertezze, di possibilità di soluzioni diverse. A partire dalla posizione del governo Cossiga – che chiedeva di prendere tempo senza andare a una drammatizzazione – che non avrebbe permesso alla Fiat di portare in porto la sua operazione. Fu poi la crisi del governo a far saltare una soluzione di compromesso che era già stata elaborata dal ministro del lavoro Foschi. La caduta del governo diede modo alla Fiat di fare la carambola, di passare dai licenziamenti alle liste dei cassintegrati. Ma la situazione rimaneva ancora aperta, e lo testimonia la frase di Benvenuto al comizio del 10 ottobre – «o la Fiat molla o molla la Fiat» – che non era una boutade ma derivava dalla certezza di un nuovo compromesso, un pre-accordo raggiunto a Roma all’hotel Boston – certo più pesante per noi rispetto a quello proposto inizialmente da Foschi, ma ancora tollerabile rispetto alla mobilità, perché prevedeva la rotazione. Questo Benvenuto l’ha recentemente ricordato pubblicamente di fronte a uno dei protagonisti di quella vicenda, Cesare Annibaldi. In più vi è una dichiarazione dello stesso Annibaldi che ridimensiona le certezze successivamente descritte da Romiti nel suo libro-intervista a Pansa, alludendo al fatto che la stessa dirigenza Fiat aveva parecchie incertezze sulle conclusioni del confronto, fino alle ultime ore. Se la marcia dei 40.000 e il suo utilizzo non avessero interrotto il processo concordato all’hotel Boston ci sarebbe stata la rotazione e pur con molte difficoltà noi avremmo potuto gestire la situazione. E la storia sarebbe stata diversa. Ma la mattina del 14 ottobre la situazione era ancora aperta. La variante che rimaneva in campo era quella conosciuta solo dalla Fiat, la manifestazione dei capi che corso Marconi da tempo stava organizzando. Quando l’assemblea dei capi si trasformò in una manifestazione, la Fiat giocò l’ultima carta, quella decisiva, dicendo per bocca di Romiti che tutto ciò che era stato concordato fino ad allora non valeva più. Corrispondono anche i minuti: quando si vide che non si trattava di un’assemblea di qualche migliaio ma di una grande manifestazione, un fatto generale per la città, al quale le autorità comunali davano legittimazione, tutto salta e la conclusione finale è già scritta.
Gabriele Polo: Perché il sindacato sottovalutò la preparazione della marcia dei capi. È vero che c’erano state altre manifestazioni e sempre di piccole dimensioni, ma in quegli ultimi giorni la pressione dei capi era sempre più forte, soprattutto ai cancelli. C’era più di qualche sintomo: tentativi di sfondamento, lettere, raccolte di firme. In quei giorni alcuni delegati proposero di andare al Teatro nuovo per confrontarsi con i capi. Venne loro risposto che era inutile, perché sarebbe stata la solita cosa di poche persone. Perché questa sottovalutazione?
Claudio Sabattini: Anche questo faceva parte dell’incomprensione della fase. Siccome i capi in quell’ultimo decennio non avevano avuto più un ruolo importante – come era stato precedentemente, a partire dal controllo della prestazione dei lavoratori – si pensò che fosse la solita cosa, che era vero che c’era una grande tensione, ma che era provocata anche dal fatto che per la prima volta la Fiat dichiarava così tante espulsioni dalla fabbrica. Non era chiaro a tutto il gruppo dirigente sindacale che non si trattava di una manifestazione dei capi di Torino, ma di una manifestazione nazionale della Fiat, di tutta la Fiat concentrata a Torino; è come se noi avessimo fatto una manifestazione nazionale dei meccanici. Quella manifestazione era una prova di forza dell’azienda, che chiamava a sé capi, impiegati, operai. A questo non avevamo mai pensato, pensavamo a una manifestazione locale, torinese, un po’ spontanea, un po’ spinta dell’azienda. Invece era molto di più e noi proprio non capimmo che in quella giornata la Fiat schierava tutte le sue truppe sul terreno decisivo dell’ultimo minuto, dell’ultima spallata. Forse era impossibile capirlo, perché è stata la prima e l’ultima vota che la Fiat ha fatto una manifestazione di quel genere.
Gabriele Polo: C’è poi da aggiungere che voi in quel mondo non avevate molti terminali, e questo era un altro problema.
Claudio Sabattini: Certo, non avevamo terminali decisivi. Si ironizzava anche sul fatto che avrebbero loro pagato la giornata e quindi era una manifestazione di scarsa forza, perché se uno è pagato per venire… Insomma, credevamo che non sarebbe stato un grande evento.
Gabriele Polo: Invece era proprio la rivalsa di un soggetto che non era mai stato tale e che improvvisamente, per una sola volta nella storia…
Claudio Sabattini:… Interveniva per riportare l’ordine. Fu questa l’ideologia di quella manifestazione, i capi scendevano in campo per porre fine a un conflitto, come se fossero una terza forza, una specie di Onu. Noi sappiamo che non erano affatto neutrali, che furono spinti e finanziati dall’azienda. Conosciamo i rapporti che il gruppo organizzatore aveva con la direzione Fiat. Ma non c’è dubbio che per realizzare una cosa simile corso Marconi contò sul fatto che una forza che era sempre stata non significativa nei grandi conflitti poteva considerarsi per una volta determinante, non solo per la Fiat ma anche per loro stessi, per riprendersi sul campo il potere perduto sui lavoratori.
Gabriele Polo: Come se in una giornata si fossero coagulati dieci anni di frustrazione e rancori?
Claudio Sabattini: Si. Già il licenziamento dei 61 era stato un messaggio forte dell’azienda ai capi, per dire «noi siamo in grado di difendervi», cosa che molti capi avevano a lungo rimproverato all’azienda di non aver fatto nel decennio Settanta. E la vicenda dei 61 rimise in moto questa fiducia. Nell’autunno del 1980 la Fiat disse alla sua gente «per potervi difendere bisogna liquidare questa massa di estremisti e, almeno per un giorno, dovete essere voi il soggetto decisivo, dovete marciare».
Gabriele Polo: Nelle ore tra la notizia della marcia e la decisione di firmare, cosa successe nella delegazione sindacale? Non c’era alcuna ipotesi alternativa in campo?
Claudio Sabattini: Sostanzialmente no. Che avessimo imboccato la fase finale era la consapevolezza di tutti. A quel punto non serviva tanto una manifestazione di forza, quanto una coerenza di trattativa, un rispetto minimo del mandato ricevuto, che tenesse in piedi il punto essenziale della rotazione, che evitasse la discriminazione. Io partii da Roma, perché mio padre era entrato in coma irreversibile, mentre erano appena riprese le trattative e si attendeva l’esito della marcia di Torino. C’era stato un avviso, portato da Bertinotti, con il quale la direzione del Pci aveva chiesto che lui ed io non facessimo più parte della delegazione impegnata nella trattativa. A me poi cadde sulla testa la notizia sulla salute di mio padre e quindi partii. Mio padre poi morì quella sera, nelle stesse ore in cui l’accordo veniva firmato. Tutto ciò che avvenne in quelle ore, la sospensione delle trattative su richiesta di Romiti, la discussione nel sindacato, la firma conclusiva, lo appresi soltanto la mattina del 15, quando tutto era finito. Seppi che ci fu una riunione, con una discussione molto vivace, ma alla fine solo in due votarono contro l’ipotesi di accettare la mobilità. Resta il fatto che una volta arrivata la notizia della marcia dei 40.000, con la Fiat che dice «cambia tutto», o il sindacato a quel punto dice «non cambia niente», oppure tutto è già chiuso. Se si accettava il fatto che la marcia cambiava tutto, mentre si sapeva che per organizzare una manifestazione sindacale a Torino sarebbero bastate 24 ore, allora era proprio finita. Quel silenzio dopo la frase di Romiti fu come un accordo conclusivo, come se ormai si fosse deciso che quel giorno si concludeva e che, ormai, era la marcia dei capi a chiudere.
Gabriele Polo: Quindi la maggiore responsabilità delle confederazioni fu di aver accettato il fatto che quella marcia cambiava tutto, che non ci poteva più essere coerenza con il mandato e con le discussioni fatte precedentemente?
Claudio Sabattini: Esattamente, credo che aver accettato l’affermazione che la marcia cambiava tutto sia stato, nel migliore dei casi, una grave superficialità.
Gabriele Polo: Perché è successo?
Claudio Sabattini: Nelle trattative pesa anche il clima che si instaura verso la fine; le trattive sono fatte perché qualcuno ceda. Si può anche dire che non fu considerato realistico proseguire la battaglia, che la stanchezza era tanta, che c’erano timori per l’ordine pubblico, però è altrettanto vero che quando si dice «fate voi la proposta», allora si è proprio convinti di accettare la sconfitta. Il motivo di fondo sta nell’errore di analisi, nel pensare che si trattasse solo di una ristrutturazione; e poi perché quel modello consiliare che veniva smantellato dava fastidio, veniva vissuto con insofferenza. Non posso dire che ci sia stata una consapevole convergenza di interessi con la Fiat sul problema Consiglione, dico però che quel fastidio giocò un ruolo importante nell’accettare l’accordo, perché se tutti fossero stati convinti sulla possibilità di trovare un’altra soluzione, la proposta di Carniti di una contromanifestazione sarebbe stata subito raccolta. Un altro elemento, che pesò sulle scelte finali, fu la decisione del Pci di Torino di accettare la mobilità, lo stesso Pci di Torino che meno di un mese prima preparava l’occupazione di Mirafiori.
Gabriele Polo: Quando sei tornato a Torino?
Claudio Sabattini: Solo un anno dopo, quando si discuteva la sorte del Lingotto e avveniva la prima verifica dell’accordo. E siccome si presentavano dei problemi sui dati che pareva fossero manipolati, dichiarai persino uno sciopero che non andò tanto male. Fu in quell’occasione che Paolo Annibaldi venne a dirmi una frase che mi parve conclusiva: «Lei dottore ormai deve abituarsi a misurarsi con un rapporto di forza completamente diverso»…
Gabriele Polo: Perché ci hai messo un anno a tornare a Torino?
Claudio Sabattini: Beh, io ero rimasto sconvolto per la conclusione di quella vicenda, ero ancora responsabile del settore auto della Fiom e tale rimasi fino alla fine dell’81. Soprattutto il racconto dello Smeraldo e dell’andamento delle assemblee mi avevano colpito, ma pesava anche il fatto che nella Fiom si era aperta la campagna di caccia al colpevole.
Gabriele Polo: Perché nei gruppi dirigenti si parlò apertamente di sconfitta, mentre fuori si millantava una vittoria…
Claudio Sabattini: Sì, si parlò di gravissima sconfitta del movimento operaio italiano e fu attribuita all’irresponsabilità di alcuni estremisti della Fiom. Cominciò così un processo di allontanamento e fu subito chiaro che non avrei avuto alcun incarico dirigente nel prossimo futuro. Cosa che io non ho contestato minimamente, perché sentivo davvero la responsabilità di quella sconfitta, poiché un ruolo importante in quella vicenda lo avevo avuto. In Fiom avvenne una vera e propria rivincita di quella parte dell’organizzazione che già prima della vicenda Fiat si sentiva più vicina alle ragioni della confederazione che a quelle della categoria, di quella parte che aveva condiviso le scelte dell’Eur e la logica dei sacrifici.
Gabriele Polo: Tu poi sei tornato a Torino nell’89 come segretario regionale della Cgil. Come hai trovato, dieci anni dopo, quella città e quei lavoratori?
Claudio Sabattini: Era una città completamente cambiata. Mentre il suo volto, anche quello centralissimo, era stato dominato per tutto il decennio Settanta dalle lotte operaie che erano il punto di riferimento comune, in seguito sembrava una città senza più operai e quelli rimasti erano stati ghetizzati. Era una città capovolta, il potere padronale era totalmente riconquistato, non solo nella fabbrica, ma dalla fabbrica alla città. Una Torino così non l’avevo mai vista, perché era come se fosse tornata a prima del ’68, era una città piegata ai voleri dell’impresa, piena di emarginati (pensa alle Upa), liberata dagli operai, ritornata al suo assoluto conservatorismo e alla devozione verso i simboli fondamentali del potere, lo si respirava concretamente… Talmente liberata dagli operai da essere diventata vuota, come dopo una grande battaglia campale: una parte aveva perso, e quella che aveva vinto si era presa tutto, non solo la fabbrica, ma la città.
Gabriele Polo: In tutti questi anni c’è mai stata nel sindacato una discussione vera su quella vertenza?
Claudio Sabattini: No. Ne discussero spesso i cassintegrati, ma una discussione vera non ci fu mai a livello sindacale.
Gabriele Polo: Ma secondo te quella è ancora vissuta come una vergogna da nascondere?
Claudio Sabattini: Devo dire che Lama tutto sommato tentò anche di declinare la vicenda in modo diverso, dicendo che c’era stata una lotta, che quella lotta in fondo era necessaria, ma che noi non avevamo capito le innovazioni tecnologiche e culturali e perciò avevamo perso. Un ragionamento che si rifaceva al nucleo centrale del percorso aperto con l’Eur: era cambiata fase, bisognava starci dentro, non si poteva pretendere di mantenere ciò che si era conquistato, perché questo portava alla sconfitta. Però tutti convergevano sull’argomento che la sconfitta era inevitabile, che fu poi l’argomento di tutti gli anni successivi. E se la sconfitta era inevitabile, perché fare quella lotta e soprattutto in quel modo. Io invece ho sempre pensato che fosse possibile un compromesso; capivo che bisognava modificare molte cose, che i rapporti di forza non erano sufficienti, che quel modello consiliare stava entrando in crisi, ma continuo a pensare che era possibile un compromesso. Grazie al quale non interrompere il rapporto con quel modello consiliare e con quei lavoratori con una rottura così violenta e indiscutibile. Che provocò anche una cesura della memoria, non solo la memoria della vicenda Fiat, ma tutta la memoria del decennio ’70. Una cesura diventata poi elemento strutturale della politica sindacale degli anni successivi.
l’onda lunga dell’80
Gabriele Polo:Fuori da Torino questa sconfitta venne accettata subito, presto dimenticata, rimossa.
Claudio Sabattini: Le conclusioni della vertenza Fiat non furono sentite come una sconfitta collettiva, ma «solo» come una sconfitta dei lavoratori della Fiat, che pagavano la lunga egemonia che avevano avuto sulla grande impresa. E i 35 giorni furono considerati come una difesa estrema di quell’egemonia i cui destini erano segnati. Nel sindacato, come succede nelle grandi organizzazioni, si aprì la ricerca dei capri espiatori, bisognava trovare il modo di gettare addosso a qualcuno la responsabilità di quella sconfitta. Ricordo una riunione della direzione del Pci con la segreteria Cgil e quella della Fiom, in cui Lama disse «in questo caso non possiamo semplicemente far vedere gli stracci, abbiamo bisogno di dare un segno preciso e dobbiamo trovare una responsabilità che sia riconoscibile ed esemplare». E mi fu detto che, tutto sommato, era quasi una cosa nobile essere tra i capri espiatori. Era un passaggio che non si poteva evitare, l’opinione pubblica sindacale e la controparte dovevano ricevere un segnale preciso secondo il quale quella lotta era stata considerata sbagliata, che comunque era stata l’ultima e, quindi, quella fase era chiusa, non si sarebbe più ripetuta. E si entrava in una nuova fase, caratterizzata da un grande ottimismo, anche perché nei primi mesi dopo l’80 la Fiat non calcò subito la mano, si rese disponibile al confronto. Un atteggiamento non disinteressato, perché quando facemmo la verifica dell’81, la prima sugli organici, valutando il numero di quelli che se n’erano andati, per mantenere intatta la struttura dell’accordo e la fase di mobilità, la Fiat annunciò che il Lingotto doveva essere chiuso, per cui o se ne licenziavano tutti i lavoratori, oppure non potevano rientrare quei lavoratori già usciti per l’accordo dell’anno prima. Così fu conclusa la vicenda del Lingotto. La struttura dell’accordo dell’autunno ’80 rimase intatta. In questa vicenda giocò anche il fatto che altrimenti si sarebbe aperto un conflitto tra i lavoratori, un nuovo inasprimento della situazione in Fiat. L’azienda confermava gli obiettivi ottenuti l’anno prima, mentre gli operai si sentirono abbandonati, soprattutto quelli che avevano combattuto. Abbandonati soprattutto dal sindacato, da quello stesso sindacato rinato grazie a loro alla fine degli anni Sessanta. Vissero una sensazione di violenta depressione, con la convinzione che fuori dai cancelli erano stati messi tutti quelli che potevano battersi contro la Fiat. In più essi venivano colpevolizzati per aver fatto una «lotta sbagliata» che aveva portato a una sconfitta di tutto il movimento operaio. Questa colpevolizzazione fu l’elemento chiave. E sarà, per un lungo periodo, l’asse di interpretazione silenziosa dei 35 giorni. La decisione comune nel sindacato fu quella di individuare dei colpevoli, di indicarli, di accusarli di estremismo, di aver fatto una lotta sbagliata; ma anche di essere culturalmente e politicamente superati. E quindi esclusi. Inizia così un processo di esclusione molto importante, anche dentro i metalmeccanici: nessuna elaborazione esplicita e trasparente della sconfitta se si eccettuano gli elementi interpretativi sotterranei dei 35 giorni; sotterranei, perché quella vicenda non fu mai discussa apertamente neanche nella Fiom. Galli pensava, e continua a pensare, che in fondo quella soluzione era stata positiva, non calcolando l’enorme falcidia di quadri operai – i più importanti e significativi – buttati fuori per sempre dalla fabbrica. Gli altri invece pensarono che era stata proprio una sconfitta, frutto di una gestione estermista e dell’incapacità di comprendere il nuovo. Quel nuovo che partendo da lì attraverserà tutta la storia sindacale, fino a oggi.
Gabriele Polo: Perciò si può dire che in qualche modo quella vicenda rese concreta la logica dell’Eur?
Claudio Sabattini: Molto di più, perché con quella conclusione si andava oltre l’equazione sbagliata del contenimento dei salari che difende l’occupazione, fino alle vicende odierne della politica dei redditi che dovrebbe portare a un aumento occupazionale, il che non è. No, ci fu un’incapacità di previsione, anche da parte di chi voleva trovare una soluzione per venire incontro agli interessi della Fiat che era in crisi e che bisognava salvare; anche loro non capirono che si era aperta nel mondo una grande fase di ristrutturazione a carico della forza lavoro come condizione essenziale del rilancio della produttività. E proprio per questo non compresero che si apriva una fase che non sarebbe rapidamente finita. La ristrutturazione diventerà infatti l’elemento dominante, in funzione dell’aumento della produttività e della modernizzazione che attraverserà tutti gli anni ’80, a partire dalla Fiat, e toccherà tutti i metalmeccanici, con una sua ritualizzazione: l’incontro con le controparti, la verifica degli esuberi, gli ammortizzatori sociali da mettere in campo. Alla luce di questo la stessa valutazione dell’Eur si potrebbe definire ottimistica, non teneva conto delle esigenze strategiche delle imprese: la riconquista del potere in fabbrica come condizione per il rinnovamento tecnologico delle aziende.
Gabriele Polo: Fu un subire la situazione senza mai elaborarla?
Claudio Sabattini: Esattamente. Con la colpevolizzazione, che era la cosa peggiore, perché tutti quelli che non la pensavano così erano responsabili della sconfitta.
Gabriele Polo: Prima hai usato il termine esclusione. Cosa intendi?
Claudio Sabattini: Che una parte consistente di forza lavoro costruita sindacalmente e culturalmente negli anni Settanta fu oggetto di esclusione, perché tutti i grandi processi di ristrutturazione si fondavano sullo stesso modello Fiat, colpivano sempre le stesse figure: gli ammalati, coloro che non erano in grado di essere altamente competitivi, le avanguardie, i gruppi sindacali che erano stati il momento più alto del potere dei lavoratori in fabbrica. Potere non solo sindacale, ma il momento più alto di consapevolezza nella gestione del sindacato dei consigli. L’esclusione diventerà poi qualcosa di più, un modello sociale, il principio attraverso cui dividere tutta la società, tra inclusi ed esclusi.
Gabriele Polo: Quindi è da lì che si sperimenta la logica dell’identificazione con l’impresa, sta «dentro» solo chi si identifica con l’impresa?
Claudio Sabattini: Esatto, e nella prima fase il trauma fu durissimo, il cambiamento repentino, perché l’esito della vicenda Fiat fu che venne liquidata la contrattazione aziendale; prima di tutto quella sulle condizioni di lavoro. Come a dire che le condizioni di lavoro, il salario e l’orario ritornavano a essere varianti dell’iniziativa padronale e manageriale, con un’espropriazione dei poteri dei singoli lavoratori oltre che del sindacato. Cioè una vera sconfitta operaia, prima che una sconfitta sindacale.
Gabriele Polo: E da lì si estende a tutte le imprese italiane. Quando si comincia a comprendere quest’indirizzo, a capire che la vicenda Fiat ha rappresentato qualcosa di strategico?
Claudio Sabattini: Questa consapevolezza, questa chiarezza non c’è mai stata, perché nel momento in cui si afferma che i processi di ristrutturazione erano la condizione essenziale per attraversare la nuova fase storico-industriale non vi è più un atteggiamento di valutazione su ciò che sta succedendo, viene inteso come un fatto di necessità, di naturalità, di normalità; così l’unica parola d’ordine diventava «il governo dei processi», che si rendeva assolutamente improbabile visto che c’erano sempre gli esuberi con cui fare i conti e da questi venivano escluse proprio quelle forze che più consapevolmente potevano rientrare nei processi di riorganizzazione dell’impresa. E il sindacato era impegnato a cercare di difendere quel poco che poteva ancora difendere. Però l’intangibilità del comando padronale era assoluta e indiscutibile. Da questo punto di vista la vicenda dell’80 determina una rottura culturale e politica con gli anni Settanta e contemporaneamente cambia nel profondo la cultura stessa dei quadri sindacali. Perché a quel punto il potere di negoziazione sui processi di ristrutturazione non era più affidato ai consigli di fabbrica, che non a caso scompaiono, ma esclusivamente al sindacato che contratta con l’impresa, che definisce gli esuberi e su questa base decide gli ammortizzatori. Quindi il sindacato torna a essere protagonista in prima persona: sindacato e impresa, i lavoratori spariscono come soggetti. È qui la modifica radicale rispetto al modello precedente, perché anche negli anni Settanta il sindacato aveva una funzione importantissima di confronto culturale, politico, di generalizzazione delle conquiste, di acquisizione di una cultura fondata sulla possibilità di modificare l’organizzazione del lavoro e comunque le condizioni dei lavoratori, però era chiaro che il nodo dei rapporti passava per i consigli di fabbrica, i veri detentori del potere in fabbrica e quindi il sindacato doveva proprio misurarsi con loro che rappresentavano la totalità degli operai, impiegati e tecnici. È in questo quadro che venne cancellata anche l’ultima importantissima conquista, la validazione dei lavoratori.
Gabriele Polo: Tutto quello che dici comporta anche la cancellazione della memoria, perché se si deve sconfessare la pratica di un intero decennio andava nascosta la memoria di quel decennio e quella dell’atto che ne aveva segnato il rovesciamento, l’80.
Claudio Sabattini: Direi di più, non solo andava nascosta, ma doveva essere colpevolizzata. Perché se gli operai della Fiat e le loro lotte erano cose vecchie, chi manteneva un rapporto positivo con la cultura degli anni Settanta era vecchio, superato, conflittuale, non aveva capito il futuro. Vi furono giganteschi processi di revisione e abiure silenziose, anche tra i meccanici, logiche opportunistiche, passaggi da una parte all’altra non solo tra i gruppi dirigenti ma anche tra i lavoratori. Passò la linea secondo cui bisognava pur far qualcosa, non stare fermi alla sconfitta e quindi pur di agire si faceva quello che era possibile fare, cioè si gestivano gli esuberi. Una parte rinnegò violentemente non solo la vicenda Fiat ma tutto il decennio precedente. Definendolo un decennio di pazzia, per usare le parole dell’allora sindaco di Torino, un decennio in cui la classe operaia aveva pensato di conquistare il mondo, di scalare il cielo, non solo di affermare il suo potere in fabbrica ma anche il suo potere politico attraverso le grandi iniziative di lotta per le riforme. Tutto questo veniva cancellato. Come se la storia potesse ripartire da prima del ’68. E grande parte del quadro sindacale pensò di allontanare il più possibile se stesso da quel periodo, anche se tutti i più importanti quadri sindacali di allora venivano proprio da lì: per questo occorreva agire in modo diverso, allentando anche il rapporto con i lavoratori che restavano in fabbrica. Iniziò un processo di dissociazione, accentuato dalla rottura del patto sindacale unitario della Flm determinatosi dall’84. A quel punto non fu più possibile nessuna pratica di consultazione dei lavoratori. Il sindacato era l’unico soggetto rimasto in piedi – si fa per dire – ed escludendo i lavoratori da soggetto sociale vincolante fu operata una drammatica liquidazione di ogni rapporto democratico. Il sindacato si sentì persino liberato da quel lungo e necessario rapporto con i consigli di fabbrica e i lavoratori, cioè dal fatto che ogni decisione e azione fosse vincolata dal parere dei lavoratori e dei consigli. La strada era libera.
Gabriele Polo: In questo processo di rimozione si colloca anche la cancellazione del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici dal parte del mondo della cultura?
Claudio Sabattini: Certo, il processo riguardò non solo il sindacato ma anche tutto quel mondo intellettuale legato al sindacato negli anni Settanta e vi furono episodi clamorosi e dolorosi di «pentimento». Cambi di campo possibili solo sulla base di una cultura terribile – che lì si instaurò – secondo cui se i lavoratori sono di per sé conservatori e non capiscono il nuovo, bisogna agire lo stesso, non importa il rapporto democratico, lo si fa per il loro bene. E quando si fa una cosa per il bene di un altro, escludendo che questi sia capace di fare il suo bene, lo si sminuisce radicalmente nel suo essere e nei suoi diritti. È un interventismo democratico, che annulla ogni procedura di verifica del consenso, ed è il sindacato – in piena autonomia – che si incarica di fare il bene dei lavoratori.
Gabriele Polo: La concertazione nasce lì?
Claudio Sabattini: Sì, nell’83 c’è la triangolazione per i processi di contrattazione, si apre la fase dell’intervento diretto del governo sulle vicende sociali e sindacali. Emerge una nuova strategia che era stata annunciata da Ciampi nell’80, per cui bisogna condizionare gli andamenti dei salari nominali a quello dell’inflazione. Il lavoro diventa una variabile dipendente dell’impresa, e il governo discute le questioni economiche avendo come intenzione decisiva quella di eliminare gli automatismi. La battaglia sulla scala mobile che si concluderà nel ’92, nasce nell’80 e finisce all’inizio degli anni Novanta, cambiando il senso e la portata della contrattazione aziendale. Da allora, cioè dall’inizio degli anni Ottanta, i contratti nazionali non servono per aumentare i salari, ma a difendere il potere d’acquisto, mentre in quelli aziendali non si discute più la condizione di lavoro; la contrattazione aziendale si muove stancamente su qualche premio, qualche passaggio di categoria, non potendo più contare sull’asse portante della contrattazione stessa: la rappresentanza degli interessi dei lavoratori e cioè quella struttura di potere che erano i consigli. Dentro un quadro culturale in cui il reaganismo diventa sempre di più la cultura di tutte le classi dirigenti in Italia è Craxi a rappresentare al meglio quell’impostazione, attraverso un forte sostegno alle imprese e un intervento diretto dentro le stesse confederazioni. A tutto questo si accompagna la fede aziendale nella potenza assoluta della tecnologia e la diffusa convinzione che i lavoratori non sono più né un soggetto alternativo al capitale né in grado di reggere la contrattazione delle proprie condizioni di lavoro, ormai privi di capacità soggettiva nel processo di lavoro e nella società. È una delle conseguenze più importanti della vicenda Fiat, un impianto che non trova di fronte a sé nessun ostacolo, anche perché erano stati espulsi i protagonisti che potevano contrastare questa deriva, sia in fabbrica che nel sindacato.
Gabriele Polo: Ma c’è anche un grande processo di cancellazione del lavoro dalla società, basato sulla revisione critica dei valori del ’68-69.
Claudio Sabattini: Sì, la sconfitta e la sua rimozione servono a cancellare dalla memoria il decennio Settanta, fin dalle sue origini (‘68-69 ). Si disse che il radicalismo di quegli anni non teneva conto degli aspetti economici e quindi era fuori dalla tradizione storica del movimento operaio: una parentesi sbagliata e irripetibile, insomma, un disegno utopico da cancellare.
Gabriele Polo: Il post ’80 permette anche di passare a una nuova fase, caratterizzata dalla concertazione, dal peso crescente del potere politico sulle scelte sociali tutte mirate a imporre compatibilità alla pratica sindacale. Il salario che non deve superare l’inflazione diventa il punto nodale, anche perché la contrattazione sulle condizioni di lavoro è stata liquidata dai nuovi rapporti di forza.
Claudio Sabattini: Si, e la catastrofe avviene nell’84, tra il decreto di san Valentino e il referendum perso sulla scala mobile. Allora diventa palese che il Pci non è più in grado di porre un veto sulle scelte sociali del governo, viene battuto nella sua funzione sociale, e si apre una fase diversa, sia perché il Pci aveva una strategia dell’alternativa democratica in realtà priva di punti di riferimento parlamentari e politici, ma soprattutto perché il partito comunista, Berlinguer compreso, esplicita l’analisi revisionista del decennio Settanta e concorda sul giudizio di estremismo dato sui 35 giorni. Né nel Pci né nella Cgil vi sono divisioni sostanziali di giudizio sul passato e tutti sono presi dall’urgenza di costruire rapidamente una nuova fase in cui dall’alternativa si passa ai «patti». Questo mentre il padronato italiano, dietro le bandiere del governo, insiste sulla fine del conflitto e sulla cancellazione della scala mobile. Il sindacato accetta la logica della partecipazione che i padroni nei fatti non accettano. Il padronato vuole trovare di volta in volta soluzioni adeguate alle esigenze assolute e indiscutibili delle imprese; l’accordo diventa obbligatorio, si deve fare a tutti i costi. Ciò in un momento in cui la divisione sindacale produce l’effetto, soprattutto per Fim e Uilm, di abbandonare la consultazione vincolante dei lavoratori. E sono gli anni delle grandi ristrutturazioni, tutte fatte con gli stessi criteri dell’autunno ’80. In sintesi, l’impresa è ormai considerata il motore di qualunque processo, rappresenta l’interesse del paese.
Gabriele Polo: Nelle fabbriche si passa cioè dai rapporti sindacali alle relazioni d’impresa: cioè al rapporto diretto lavoratore-gerarchia aziendale.
Claudio Sabattini: L’aspetto principale che provoca il rovesciamento degli anni Settanta è la liquidazione della contrattazione aziendale. La condizione di lavoro, la prestazione, la salute, il salario – i problemi strategicamente decisivi che permettono ai lavoratori di essere protagonisti dei processi perché riguardano i loro interessi diretti – vengono sottoposti a un pesante attacco e gli interessi dominanti su cui rimodellare tutto sono quelli dell’impresa; qui avviene un primo sostanziale distacco tra i lavoratori dell’industria e il sindacato. Così la strategia diventa quella dell’accompagnamento dei processi di ristrutturazione dell’impresa italiana, con l’unica attenzione a renderli «dolci», attraverso gli ammortizzatori sociali pagati dallo stato. Si è detto che quella era una contrattazione di tipo difensivo, ma per i gruppi dirigenti di allora era proprio ciò che si doveva fare, un’altra linea da mettere in campo rispetto gli anni Settanta; non una linea difensiva ma la modernizzazione. E qui c’è il secondo effetto, perché se il sindacato non contratta più è evidente che i lavoratori debbono arrangiarsi, se non c’è più nessuno che ti rappresenta l’unica strada è quella del rapporto individuale con l’impresa e le sue gerarchie. Un minimalismo sociale affrontato come unica possibilità di piccole modifiche individuali all’interno di un quadro immutabile. Così, in quegli anni, la struttura gerarchica riprende tutto il suo potere discriminatorio e di controllo e si preparano le fasi delle successive ristrutturazioni, che attraversano tutti gli anni Ottanta. Anche gli effetti disastrosi che si avranno nell’introduzione massiccia dell’automazione della struttura produttiva – come accadrà a Cassino – saranno pagati proprio dai lavoratori, perché le fermate tecniche, determinate dal mal funzionamento dell’automazione, dovranno essere recuperate, i tempi modificati, gli obiettivi produttivi raggiunti comunque. Questo modello di robotizzazione dura pochissimo, ma produce ulteriori effetti sulla condizioni dei lavoratori chiamati a fare ciò che i robot non sono in grado di fare e così la forza lavoro opera spesso al di là delle metriche massime previste dalla stessa azienda.
Gabriele Polo: Si produce un effetto di disgregazione, una volta ripreso il controllo sugli operai in fabbrica, offuscato il lavoro stesso, si apre la strada alla frantumazione della forza lavoro, attraverso le esternalizzazioni. È la fase che si aprirà negli anni ’90.
Claudio Sabattini: Si ma prima c’è il passaggio della qualità totale e della fabbrica integrata. L’illusione pantecnologica si rivela impraticabile, si deve perciò tornare indietro e il problema fondamentale diventa motivare il lavoro. E questo avviene attraverso un processo di nuova segmentazione dell’impresa e con una serie di strutture autonome che nella fabbrica integrata non lavorano più in maniera sequenziale: il potere d’interdizione dei lavoratori degli anni Settanta viene definitivamente smantellato, la produzione è apparentemente ricomposta e tutto questo ha bisogno del coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo sulla base di una nuova cultura di fondo, quella toyotista. L’impresa si ristruttura e cambia la sua concezione, la logistica e la subfornitura sono sempre più importanti e per questo il processo di montaggio finale e di controllo devono essere anche di tipo qualitativo, proprio perché le varianti della fabbricazione diventavano sempre più forti. A questo proposito si tenta di dimostrare che la forza lavoro diventa sempre più decisiva a condizione che essa si assoggetti agli obiettivi d’impresa offrendo coinvolgimento e disponibilità.
Gabriele Polo: C’è un grande peso ideologico in questa manovra, ma in quale modo concreto viene cercato il coinvolgimento?
Claudio Sabattini: L’aspetto materiale si colloca nella tradizione dei padroni italiani, la divisione dei lavoratori attraverso piccolissimi benefici individuali o di piccolo gruppo. Poca roba. Ma il punto chiave resta che il lavoratore deve essere coinvolto negli obiettivi ed è l’aspetto ideologico a essere molto forte, perché è dal coinvolgimento ideologico che si può avere la qualità. Solo chi crede ciecamente combatte fino in fondo. E prendono piede tutte le teorie della partecipazione, che alla Fiat restano sempre sulla carta, mentre in altre imprese si trasformano in un ridisegno della forza lavoro che se conquistata agli obiettivi dell’impresa può svolgere ancora un ruolo decisivo. Di qui la questione delle risorse umane come culmine della strategia toyotista, ma solo di quelle risorse umane che accettano di essere coinvolte. È una nuova divisione: quelli che non si fanno coinvolgere devono essere ristrutturati o, come oggi si dice con un’orribile espressione padronale, rottamati.
Gabriele Polo: Il sindacato come affronta questa fase, in un momento in cui il lavoro è oscurato e sembra ridotto a una voce dell’organizzazione tecnico-aziendale?
Claudio Sabattini: Da un lato pensando che il rilancio delle risorse umane possa essere occasione per la rivitalizzazione dei lavoratori e del lavoro. Dall’altro si ritenta una fase di contrattazione, si cerca di affermare che il coinvolgimento può avvenire solo attraverso una contrattazione che definisca gli obiettivi generali, che è poi l’asse che porterà al 23 luglio ’93. Questa seconda cosa non sarà mai accettata, perché avrebbe significato rilanciare la contrattazione su tutto, dalle condizione di lavoro all’organizzazione. La breve utopia di sinistra che tenta di fronteggiare il toyotismo senza denigrarlo o rifiutarlo e che punta alla ricostruzione della soggettività dei lavoratori e la pari dignità dei soggetti all’interno dell’impresa (lavoratori/sindacato, managemet/proprietà), viene radicalmente respinta. In particolare dalla Fiat, che non la prende nemmeno in considerazione: i modelli partecipativi presenti in Fiat sono utilizzati solo strumentalmente, non c’è mai la costruzione di un modello partecipativo; le decisioni strategiche spettano all’azienda e non possono essere messe in discussione dal sindacato e dai lavoratori e quindi la supremazia totale è dell’impresa e il coinvolgimento proposto si dimostra solo subalternità.
Gabriele Polo: Tra l’altro questa è anche una stagione molto breve, perché presto la centralità viene presa dai vincoli monetari e viene introdotto il concetto di flessibilità, la nuova centralità degli anni Novanta.
Claudio Sabattini: Sì, una flessibilità intesa come liquidazione dei diritti fondamentali dei lavoratori e dei cittadini, che si estende dai luoghi di lavoro a tutta la società. La flessibilità si presenta come una nuova modernizzazione radicale che punta decisamente a spostare non più solo gli equilibri dentro l’impresa ma anche gli equilibri verso la finanza che diventa centrale. Si passa dal capitale industriale a quello finanziario, al dominio della finanza e quindi del profitto a breve su ogni altra cosa. Tanto è vero che proprio in questo periodo si reintroduce la teoria del valore, nel senso che tutta la struttura dei servizi doveva produrre profitto, in tutti i suoi segmenti: il metro di misura del profitto è la rendita finanziaria, tutto ciò che è al di sotto di quella soglia deve essere eliminato o esternalizzato o liquidato. È anche un nodo culturale. Tanto più quando, nel ’92, si chiude la battaglia sulla scala mobile e si apre la fase di ristrutturazione e ridisegno dello stato sociale che deve diventare sempre di più strumento finanziario: le risorse dello stato sociale devono essere privatizzate, per cui tutto ciò che i lavoratori delle imprese pagano per lo stato sociale deve essere messo in discussione per poter immettere sul mercato questa fetta così consistente di denaro. Si passa da una concezione del welfare come rete di protezione sociale all’utilizzo finanziario, a una concezione di capitalizzazione. Lo stato sociale deve essere capitalizzato in chiave finanziaria, come accade per i fondi pensione: una parte di salario si deve trasformare in capitale finanziario. Di qui, poi, le concezioni che arrivano a una visione paradossale della democrazia economica intesa come partecipazione azionaria dei lavoratori all’impresa.
Gabriele Polo: Dal punto di vista del lavoro la flessibilità aggiunge un nuovo tassello alla relazione puramente individuale tra capitale e lavoro.
Claudio Sabattini: Sì, la flessibilità deve cancellare tutto ciò che è rimasto dei diritti e delle conquiste fatte negli anni Sessanta e Settanta e punta verso l’obiettivo di fondo, cioè la liquidazione della contrattazione collettiva. Perché la flessibilità non può essere contrattata, altrimenti diventa un impaccio, e per questo si liberalizza il rapporto di lavoro – nascono le nuove forme contrattuali – e si chiede al lavoro di sopperire con la propria elasticità alla crescente rigidità dell’impresa. Tantopiù l’impresa diventa rigida, tantopiù il lavoro deve essere flessibile, perché tutti i segmenti del processo produttivo – dalla progettazione all’esecuzione – devono combaciare nel più breve tempo possibile.
Gabriele Polo: È un modo per gestire la rete d’impresa: le funzioni di comando e governo si accentrano, il processo non tollera ritardi o contraddizioni, tutti i punti devono combaciare e la forza lavoro è chiamata a sopperire, diventa l’ammortizzatore di una «macchina» rigida e complessa.
Claudio Sabattini: I lavoratori vengono chiamati ad assumere una nuova funzione, più intensa d’un tempo, pur essendo pagati meno: non sono più solo forza lavoro esecutiva, come nel taylorismo anni Venti-Trenta, ma diventano forza lavoro gestionale, perché devono essere in grado di fronteggiare tutte le turbolenze che si presentano nel processo produttivo, che si misura su un mercato molto più aperto e per questo sono continuamente chiamate a interventi di tipo gestionale. E un ruolo gestionale della fabbrica pretende un’adesione alle ragioni delle imprese. Un’adesione subalterna, perché i centri decisionali rimangono impermeabili e determinano tutto, tempi e obiettivi; la gestione dei lavoratori è chiamata a risolvere le contraddizioni e a gestire le operazioni della fase esecutiva. È come se dicessero loro: quello è il traguardo, arrangiatevi a raggiungerlo in questo tempo.
Gabriele Polo: Però questo vale per chi sta in fabbrica ma anche per quelle mansioni che ne vengono portate fuori, perdipiù con l’aggravante che questi lavoratori non godono nemmeno di diritti e di rappresentanza che chi sta in fabbrica mantiene ancora. Questo è un problema di non poco conto.
Claudio Sabattini: Sì è un problema forte che noi finora più che interpretare abbiamo solo osservato, forse ora stiamo entrando in una fase d’interpretazione. Ed è una situazione che sottoposta a verifica concreta fa emergere una visione terribile della forza lavoro. Nel senso che tutti questi tipi di lavori nuovi e diversi tra loro – progettare un software è cosa distinta da un call center – che in parte derivano dall’esternalizzazione dell’impresa, in altra parte dall’ampliamento dei servizi, in altra parte ancora dai nuovi processi produttivi determinati dall’informatica e dalla telematica – hanno un elemento essenziale in comune, la riappropriazione del tempo da parte dell’impresa; sia del tempo di lavoro che del tempo personale degli individui. Non c’è più una separazione netta. È in gioco il tempo, cioè la vita. Quelli che non hanno futuro, che non possono pensarlo e quelli che possono ambire ad averlo ma devono essere pronti a qualunque sacrificio pur di continuare a salire, perché l’interruzione della crescita personale comporta una caduta verticale…
Gabriele Polo: Un grandissimo meccanismo selettivo. Eppure esso dà a ciascuno l’illusione di essere l’uno su mille che ce la fa.
Claudio Sabattini: Sì, che ce la fa, ma che deve sempre farcela, perché alla prima fermata precipita inesorabilmente verso il basso. E questa è una logica che non lascia tempo, in cui tutte le decisioni devono avvenire nel momento dato. Il mercato impone quei tempi, impone una selezione continua e feroce.
Gabriele Polo: In questa frantumazione del mondo del lavoro, la condizione del lavoro precipita anch’essa, perché il lavoro si intensifica. Qual è l’elemento unificante di fronte a una grande frantumazione giuridica e contrattuale? C’è un «terreno» che offra la possibilità di una nuova rappresentanza sociale generale?
Claudio Sabattini: L’elemento unificante e l’aspetto decisivo è la salute, intesa come condizione del vivere, che ritorna a essere il primo problema perché in una società che sgomita, in cui i produttori competono tra loro, la salute è decisiva, visto che se uno perde il passo è fuori. Ma anche perché la tensione che comporta il processo produttivo – di progettazione o esecuzione – è così forte, perché tutto è in funzione dell’obiettivo (si vince solo se lo si raggiunge) e tutto diventa fonte di tensione; seleziona i più deboli che non ce la fanno e interviene sulla salute di tutti i produttori. Questa tensione diventa un elemento deflagrante rispetto alle possibilità di resistere o meno. Chi non resiste cade in basso, chi resiste ha sempre di fronte una nuova prova. È un problema che attraversa tutto il mondo del lavoro, dai segmenti nuovi a bassa qualificazione – che sono costretti a fare quel lavoro – fino ai livelli più alti delle professionalità che vengono messe alla prova continuamente e che oltre ad avere competenze e capacità di lavoro devono avere anche un altissimo grado di resistenza alle tensioni e alle angosce che li scuotono. L’essere in buona salute è la condizione essenziale per la competizione: se tu non garantisci la migliore performance, non fai parte della forza lavoro che crescerà e sarai il primo a essere soggetto dei processi di ristrutturazione. Il punto chiave conquistato all’inizio degli anni Settanta, cioè che la condizione di salute e di benessere derivava dalle condizioni di lavoro e che quindi il miglioramento delle condizioni di lavoro migliorava salute e sicurezza – e che questo miglioramento doveva basarsi sulla validazione consensuale dei lavoratori – nelle nuove condizioni, ridiventa l’elemento chiave, perché riassume in sé tutto, la capacità del fare, del progettare, e la capacità di progredire.
Gabriele Polo: Stai dicendo che tutte le politiche sindacali di carattere normativo e salariale dovrebbero avere questo punto di riferimento?
Claudio Sabattini: Sì, la svolta radicale che deve fare il sindacato è capire che è stato espropriato, insieme ai lavoratori, della capacità di contrattazione delle condizioni di lavoro, che questa espropriazione ha portato a un peggioramento radicale delle condizioni di lavoro e quindi della salute e della sicurezza e che per riaffrontare il rapporto tra sindacato e lavoratori in termini positivi bisogna riaprire una fase strategica nuova che punti sulle nuove conseguenze dei processi produttivi e sulle nuove relazioni nei processi che investono la componente manuale, intellettuale ed emotiva di chi lavora, perché l’angoscia e l’ansia diventano elementi permanenti nella vita del lavoratore. Sempre, quando lavora come quando non lavora.
Gabriele Polo: Questo, naturalmente, comporta una svolta che impone la stabilizzazione del rapporto di lavoro e maggiori sicurezze. Però si scontra con quella che sarà anche solo un’illusione, ma molto diffusa, e cioè la credenza che la nuova divisione del lavoro offra maggiori spazi di libertà, come nel caso del lavoro autonomo – che spesso autonomo o indipendente non è, ma che allude a questa prospettiva – rispondendo a una richiesta presente e reale.
Claudio Sabattini: È vero che in situazioni di massima costrizione il desiderio fondamentale è la libertà. Ma questa libertà parte e può affermarsi solo se si è in grado di poter determinare tutte le condizioni del processo produttivo, sia esso autonomo o dipendente. È qui che la libertà passa attraverso la riconquista dello spazio di controllo di sé e della propria condizione di lavoro, che è il vero asse entro cui si colloca la lotta contro la precarizzazione. Che non è solo l’impegno contro il fatto che i lavoratori – nella gran parte giovani e donne – siano pagati meno degli altri o abbiano un rapporto precario; anche questo ovviamente, ma quella lotta è necessaria perché la loro condizione di lavoro, accanto a quei processi che coinvolgono i lavoratori «stabili», è sottoposta al ricatto permanente e alla richiesta di una disponibilità totale rispetto alle esigenze dell’impresa. Perché chi non risponde positivamente a queste richieste non viene più richiamato nel processo produttivo. Nelle fabbriche ormai, l’uno accanto all’altro, ci sono lavoratori stabili e lavoratori precari, in perenne concorrenza tra loro. Questa contraddizione si può superare solo omogeneizzando i rapporti di lavoro in un quadro di sicurezza dei diritti.
Gabriele Polo: Basta una politica di regole?
Claudio Sabattini: Servono le regole, ma soprattutto le azioni per sostenere questi diritti, cioè si apre il problema politico della forza lavoro, quello della sua condizione e della sua rappresentanza. Si apre nuovamente ciò che è sempre stato decisivo per il lavoro, la ricerca di un senso. Che senso ha ciò che si fa.
Gabriele Polo: Da questo punto di vista c’è chi risponde puntando all’autorganizzazione, alla fuorisuscita dal lavoro salariato.
Claudio Sabattini: Questo ci riporta a una antica discussione, iniziata a metà dell’800, ripresa a metà del ’900 e che è poi è naufragata. Io non credo che oggi l’obiettivo sia la fuoriuscita dal lavoro salariato, né che ci si possa affidare all’autogestione o all’autoregolamentazione. Io do una risposta puramente sindacale. Deve essere chiaro che la complessità del quadro non si affronta in maniera individuale ma c’è bisogno della ricostruzione della coalizione, bisogna cioè riaprire una fase di contrattazione collettiva, rilanciare la solidarietà. Che non è una cosa astratta; solidarietà viene da solidum, deve essere una cosa concreta, precisa, il riconoscimento dell’altro come parte di sé, la coscienza che abbiamo una comune condizione e che per superarla bisogna farlo insieme, colletivamente. E la coalizione è anche quella che determina condizioni nuove per la forza lavoro, perché oltre a rappresentare un altissimo livello di socialità, porta ad attutire fortemente quegli elementi soggettivi di angoscia e tensione presenti nel lavoro odierno, apre la possibilità di superarli. Afferma che è possibile modificare il sistema.
Gabriele Polo: Oltre alla teoria della fuoriuscita dal lavoro salariato e dell’autorganizzazione, c’è chi basa tutto sulla formazione per dare ai soggetti maggiori poteri contrattuali individuali.
Claudio Sabattini: La formazione oggi è un elemento molto importante, che permette la valorizzazione del lavoro e argina l’obsolescenza dei lavoratori di fronte alla velocità dell’innovazione tecnologica. E non è un caso che i padroni facciano una resistenza così feroce su questo terreno, perché vogliono formare solo quelli che a loro interessa, non tutti i lavoratori, mentre la formazione ha un senso solo se è un diritto che riguarda tutti. Ma la formazione prepara le condizioni, non risolve il problema di come superare questa fase che non è solo precaria, ma in cui la precarietà si combina con gli elementi della condizione complessiva delle persone; perché poi il processo produttivo riafferma sempre le sue condizioni che per essere superate hanno bisogno di una lotta collettiva.
Gabriele Polo: Però la logica della coalizione che fa centro sulla pratica collettiva va oggettivamente contro la cultura dominante, anche in ogni singola persona.
Claudio Sabattini: Sì non è facile, ma il capitalismo moderno non è mai stato così radicale nel voler raggiungere i suoi obiettivi e non è mai stato così feroce contro il secolo passato, quando il suo dominio è stato sottoposto a molti vincoli. Il 900 per il capitalismo è stato difficile, contraddittorio, con molte limitazioni determinate dagli stati, dalla situazione politica, dai conflitti mondiali, dal mondo diviso in due. Nel momento in cui il capitalismo diventa planetario pensa di avere tutte le condizioni per poter raggiungere i propri obiettivi che si riassumono nella fine della contrattazione collettiva e nell’assoluta disponibilità della forza lavoro, che oltre a non confliggere aderisce agli obiettivi dell’impresa. L’impresa diventa così una comunità combattente e il conflitto viene considerato il nemico interno da liquidare per poter combattere, perché la competizione è talmente feroce che fuori tutto è ostile; tutto è nemico esterno. Il lavoro deve essere obbligato a sostenere la competizione, che è ciò che afferma il presidente della Confindustria, D’Amato, «voi dovete sostenerci nelle richieste che facciamo, non contrattarle». A una definizione strategica di obiettivi così radicali da parte del capitalismo non si può che rispondere con una linea altrettanto radicale, che riaffronta tutti i passaggi della forza lavoro, della sua storia, della sua condizione. È per questo che non si può rispondere con una strategia di contenimento, serve una strategia alternativa. Dal punto di vista sindacale non si tratta semplicemente di salvare il sindacato da queste gravissime contraddizioni, ma ripartire proprio dai lavoratori, dal fatto che essi ricostruendo la propria condizione scelgono una strada che il sindacato non può che sostenere; la strada esattamente opposta alla fine della contrattazione collettiva e dei diritti, la strada che porta – ed è il massimo possibile nella società capitalistica di oggi – ad avere soggetti di pari dignità nel rapporto di lavoro, in un quadro di diritti sociali e di piena cittadinanza.
Gabriele Polo: Ma i lavoratori che voi rappresentate possono costituire una base per questa riaggregazione, per questo processo?
Claudio Sabattini: Direi di sì, perché hanno «consumato» tutte le teorie di questi ultimi 20 anni. Serve una strategia aggressiva e trasformatrice – non solo innovativa – perché l’innovazione riguarda il capitale, ma la trasformazione riguarda il sociale. La ripresa di una cultura e di un’azione trasformatrice: qui sta il nodo soggettivo dell’operazione e il problema del sindacato che deve decidere se affrontare le cose da questo punto di vista o continuare sulla vecchia logica difensiva che comunque non potrebbe mai superare le colonne d’Ercole della supremazia dell’impresa e della sua strategia.
Gabriele Polo: Ma oltre a questo bisogno soggettivo ci può essere anche una capacità aggregativa verso quelli che «stanno fuori»?
Claudio Sabattini: La linea di fondo di questi anni è stata l’utopia del salvarsi da soli, ma quest’utopia è sempre più messa in discussione dal capitalismo stesso che non vuole più contrattare neppure più individualmente, pretende solo norme definite che automatizzino il processo sociale dentro l’impresa. Di fronte a questo crollo anche delle strategie motivazionali e di fronte a quest’enorme forza lavoro che non è in grado di avere individualmente sul mercato dei poteri di contrattazione, a questo punto si apre la strada dell’aggregazione.
Gabriele Polo: Dall’altra parte si risponde con la logica del siamo tutti imprenditori.
Claudio Sabattini: Che è l’opposto di ciò che sto sostenendo. Non è che siamo tutti dipendenti, ma certo il lavoro dipendente si è molto allargato ha invaso tutti i settori della società, è l’elemento chiave di ogni processo economico. Dire che possiamo essere tutti imprenditori di noi stessi, da un lato riguarda solo una parte minima della forza lavoro, e dall’altro anche questa parte minima della forza lavoro è soggetta alle compatibilità strategiche dell’impresa, cioè la sua possibilità di libertà è dentro un quadro tattico di tappe vincolanti, che richiedono esiti altrettanto vincolanti. Quindi il lavoro autonomo e i piccoli imprenditori sono sempre più schiacciati perché devono far fronte alla grande impresa alle cui mutazioni sono soggetti, e devono adeguarsi; una parte regge e una parte muore, la selezione riguarda tutti, le imprese grandi e piccole, i lavoratori. E proprio perché coinvolge tutti, la nozione stessa di autonomia è oggi di difficile valutazione. Io non ne vedo significato se non nella rappresentanza di se stessi, consapevoli della propria condizione. Questo secondo me è il primo passaggio che può determinare un percorso che va dalla dipendenza all’indipendenza.
Gabriele Polo: C’è un grande assente in tutto quello che tu dici, la politica: un processo di trasformazione può prescindere dalla politica?
Claudio Sabattini: No, non può prescindere, ma la politica deve abbandonare la pretesa di essere rappresentanza degli interessi di tutti. Deve essere sempre di più rappresentanza di interessi di parte che aspirano a essere generali; quando salta questo passaggio e pretende di rappresentare tutto e tutti, schiaccia il sociale. Ed è proprio la crisi della politica, il suo tramonto, l’elemento più complesso di questo processo di costruzione, ciò che lascia un vuoto. È assente perché le nozioni di destra e di sinistra si sono largamente annacquate e perché tutti i soggetti politici vogliono assumersi una rappresentanza generale. E questo produce una confusione incomprensibile oltre a determinare fenomeni di abbandono da parte di una cittadinanza che non trova più una sua rappresentanza, se non – e questo è l’aspetto pericoloso – in un quadro populistico, atomistico, che prevale ormai sul resto. Siamo entrati in politica in una fase piena di americanizzazione. E non a caso gli americani chiamano «politicanti» i politici.
Gabriele Polo: Se questo processo di rimessa in moto della centralità del lavoro, di nuove coalizioni non avviene, il futuro che abbiamo davanti, sotto il dominio dell’impresa, quale tipo di coesione sociale ci può prospettare?
Claudio Sabattini: Io penso che la longevità del capitalismo deriva dalla stessa longevità della forza lavoro. Un capitalismo senza contraddizioni non ha futuro. Oggi viene considerata innovativa la contraddizione tra impresa e impresa sul mercato, ma invece ciò che determina innovazione e trasformazione è la competizione tra impresa e lavoro. Ovviamente questa è un’idea assolutamente generale. Rimane il fatto che ci sono sempre dei limiti oltre cui non si può andare. E, invece, pare che l’attuale capitalismo italiano abbia un enorme desiderio di arrivare alla rissa, di imporre con la forza le proprie condizioni. Ma imporre con la forza le proprie condizioni al lavoro non è possibile. Credo che stiamo andando incontro a rapidi passi a questa grande contraddizione.