Commento all’accordo del 19 marzo 1986
La soluzione definitiva al problema dei cassaintegrati fu stabilita con l’accordo del 19 marzo 1986 (l’accordo fu nuovamente riconfermato il 20 marzo 1986 presso il Ministero del lavoro, che doveva assicurare i necessari riconoscimenti della crisi e ristrutturazione aziendale) che, tra l’altro, stabiliva il piano di ristrutturazione per il periodo 1986 – 1989, con 5.700 miliardi d’investimenti e il rinnovo dei modelli intermedi del prodotto. Nell’accordo venivano concordati precisi orientamenti in termini di utilizzo degli impianti, con l’adozione del terzo turno nelle aree di carrozzeria ad alta intensità d’investimenti tecnologici, con la “deroga” (rimozione del divieto di lavoro notturno) per le lavoratrici; con l’adozione del sistema di refezione a scorrimento e l’estensione del sistema di tabelloni settimanali. Inoltre veniva concordato l’utilizzo della Cassa integrazione settimanale per tutta la durata del piano di ristrutturazione. Per il reinserimento graduale dei lavoratori sospesi in Cigs vennero concordati dei corsi di formazione di tre mesi (quattro ore al giorno). Successivamente un ulteriore accordo, il 14 novembre 1986, stabilì che il 5 giugno 1987 sarebbero rientrati gli ultimi lavoratori che erano ancora in Cassa integrazione; contemporaneamente lo stesso accordo stabiliva 300 nuove assunzioni nell’area torinese.
Gli strumenti indicati nell’accordo del 1980 in realtà furono poco utilizzati nella loro interezza: i corsi di riqualificazione professionale non ebbero certamente un ruolo decisivo, come si evince anche dall’accordo del 23 dicembre 1981 che coinvolgeva 60 lavoratori sospesi. Alla fine lo strumento principale per ridurre gli eccedenti furono i prepensionamenti e le dimissioni incentivate, che tra l’altro furono utilizzate anche tra i lavoratori in attività coinvolgendo, secondo alcune stime, circa 44.000 lavoratori.
La tabella evidenzia che alla fine furono oltre trentamila i lavoratori sospesi a zero ore, in cassa integrazione, per lunghi periodi. Agli iniziali 23.000 si aggiunsero successivamente altri lavoratori per effetto della chiusura di altri stabilimenti di Fiat Auto e per l’estendersi della crisi ad altri settori. La maggioranza di questi lavoratori non rientrò più in Fiat ma diede le dimissioni utilizzando gli incentivi messi a disposizione dalla Fiat, mentre poco più di un terzo rientrarono infine in azienda.
Le soluzioni individuate per il rientro definitivo di tutti i lavoratori sospesi fu molto contestata dagli interessati, sia per l’implicito scambio con le flessibilità d’orario; sia per la costituzione delle Upa (Unità di produzione accessoristica), dove rientrarono gli ultimi cassaintegrati, circa 1.200 lavoratori, invalidi, inidonei e militanti sindacali che la Fiat non voleva inserire nei normali reparti di provenienza. Le Upa erano cinque unità produttive in provincia di Torino, che operavano con attività lavorative considerate più leggere nel normale panorama Fiat. Erano soluzioni discutibili ma che erano state accettate dalle organizzazioni sindacali poiché era stato assodato che i rientri nei normali reparti di produzione dei lavoratori più deboli comportavano, dopo poco tempo, le dimissioni degli interessati non più abituati alla produzione: a Rivalta oltre 500 rientrati si licenziarono in breve tempo. Pertanto, nonostante che fossero state ribattezzate “ghetti” o “reparti confino”, furono considerate una soluzione accettabile anche se inizialmente le condizioni produttive erano molto precarie. Un ulteriore problema fu l’elevata concentrazione di militanti e delegati sindacali tra gli ultimi cassaintegrati e la resistenza della Fiat a reinserire questi lavoratori nei normali stabilimenti produttivi: su questo alla fine furono raggiunti dei compromessi più o meno favorevoli, anche con singoli ricorsi alla magistratura.
Le Upa furono oggetto di un confronto sindacale molto difficile per dotare queste unità decentrate degli stessi servizi degli altri stabilimenti e per dare una vera prospettiva produttiva a questi reparti; alla fine la maggioranza delle Upa furono chiuse anche per effetto della progressiva riduzione dei lavoratori interessati.