I delegati e il consiglio di fabbrica
I Consigli di Fabbrica nascono sulla straordinaria spinta che si è espressa nelle lotte dei lavoratori italiani a partire dai rinnovi contrattuali del ’69-’70.
Proprio alla Mirafiori, nelle vertenze di settore che, nella primavera del 1969, hanno preceduto il Contratto Nazionale, si è ottenuto il primo riconoscimento dei delegati. Nell’”accordone” del 29 giugno ’69, nel capitolo sulla “Regolamentazione del lavoro sulle linee meccanizzate”, vengono riconosciuti 56 “esperti”, con funzioni di controllo e di intervento nelle officine, affiancati da altrettanti “sostituti”.
La decisione delle strutture sindacali torinesi FIM, FIOM, UILM e SIDA, immediata e netta, fu quella di eleggere questi rappresentanti, senza distinzione tra esperti e sostituti, in ogni squadra, su “scheda bianca”.
Una decisione, certo voluta, e coraggiosa, rispetto agli orientamenti allora prevalenti nelle organizzazioni nazionali, che, al massimo, erano giunte a proporre ipotesi molto articolate di sezioni sindacali, proprio per superare le manifeste insufficienze delle Commissioni Interne. Però, in quella situazione, una decisione obbligata, sia dalla debolezza del sindacato in una fabbrica di quelle dimensioni, sia dalla enorme pressione esercitata da una partecipazione senza precedenti agli scioperi ed alle manifestazioni.
I delegati così eletti coprivano soltanto le linee di montaggio. All’inizio della vertenza contrattuale dei metalmeccanici, nel settembre ’69, le organizzazioni sindacali decisero l’elezione dei delegati in tutte le altre squadre dello stabilimento, proprio per la conduzione della lotta per il contratto.
Così si è formato il “Consiglione” organismo composto da circa 800 delegati.
Visto che, al di fuori delle linee, non vi erano né ore di permesso, né diritti sindacali, durante tutto l’arco della vertenza e cioè fino al dicembre 1969, il Consiglione è stato convocato tutti i sabati, al pomeriggio, cioè dopo la fine del primo turno.
Nello stesso anno la Conferenza unitaria FIM, FIOM, UILM, riunita a Genova per la approvazione della piattaforma contrattuale, di fatto ratificò anche la decisione dei Consigli come struttura di base del sindacato.
Il Contratto Nazionale dei meccanici del ’69 e, successivamente, per tutti i lavoratori, e successivamente la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei diritti dei lavoratori) misero a disposizione dei sindacati gli strumenti per insediarsi efficacemente all’interno delle aziende: il diritto alla nomina dei rappresentanti sindacali, le assemblee retribuite di tutti i lavoratori, il diritto di affissione ecc.. Le nuove norme legislative partivano dal presupposto che si stava realizzando un processo che avrebbe portato all’unità sindacale e quindi lo Statuto lasciava ai sindacati completa libertà di organizzazione. Nei fatti, i rappresentanti sindacali aziendali (Rsa) potevano essere nominati dalle organizzazioni sindacali, oppure designati attraverso elezioni degli iscritti al sindacato o anche in altri modi. Rispetto ai membri di commissione interna, previsti dagli accordi interconfederali, erano in quantità nettamente superiore, con una presenza più articolata nei luoghi di lavoro. Si deve aggiungere che l’articolo 19 della citata legge 300/70 subordina esplicitamente le Rsa all’organizzazione di appartenenza da cui riceve il mandato per rappresentare il sindacato nei luoghi di lavoro. La norma di legge afferma implicitamente che questo mandato può essere tolto in qualsiasi momento.
Il processo di unità sindacale, che si era avviato alla fine degli anni ’60, portò Cgil, Cisl e Uil a fare una scelta più avanzata di quella di nominare i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro e le nuove norme legislative furono utilizzate per estendere e consolidare, anche attraverso la contrattazione, le nuove strutture dei consigli di fabbrica. Questi erano nati sulla base dell’incontro tra la grande partecipazione dei lavoratori alle lotte sindacali di quel periodo e un’elaborazione sindacale che aveva individuato la necessità di una nuova rappresentanza nei luoghi di lavoro, legittimata dai lavoratori.
I consigli erano costituiti dai delegati eletti da tutti i lavoratori su scheda “bianca”, nel senso che nella scheda non compariva nessuna proposta nominativa o di lista sindacale: ogni lavoratore poteva essere elettore e eletto, pertanto l’elezione del delegato era formalmente libera da ogni vincolo associativo. Il collegio elettorale era la squadra, il reparto o l’ufficio e risultava eletto chi raccoglieva più voti: il delegato di gruppo omogeneo, così definito poiché rappresentava un gruppo di lavoratori omogenei in termini di condizioni di lavoro, al momento dell’elezione poteva anche non essere iscritto al sindacato. Inoltre poteva essere revocato in qualsiasi momento dal gruppo di lavoratori che lo aveva eletto, se perdeva il consenso degli stessi. La revoca fu applicata in effetti ben poche volte. Ma questa possibilità rappresentava una significativa deterrenza Questo doveva servire a esercitare uno stretto controllo da parte degli elettori sul delegato eletto, esaltando i valori di partecipazione dei lavoratori alle scelte collettive. Contemporaneamente l’insieme di queste misure garantiva una composizione della rappresentanza complessivamente autonoma dalle scelte delle strutture sindacali. Queste norme elettorali non furono esenti da critiche, che divennero sempre pesanti con il rallentare della spinta unitaria e con la progressiva perdita di controllo sulla organizzazione del lavoro
Si deve considerare che lo Statuto dei diritti dei lavoratori nasceva in un periodo storico in cui divampava una forte contrapposizione polemica tra sindacato e movimento, tra i fautori della direzione sindacale del movimento e quelli che teorizzavano la “spontaneità operaia”. In tal senso una delle principali scelte che caratterizzò il sindacato unitario fu di far assumere ai consigli di fabbrica il ruolo di strutture di base del sindacato operando una originale sintesi tra movimento e organizzazione. Il patto federativo stipulato tra Cgil, Cisl e Uil nel 1972 assegnava ai consigli di fabbrica poteri di contrattazione nei luoghi di lavoro, anche se restava relativamente indefinito il rapporto tra le competenze contrattuali del consiglio e quelle delle strutture sindacali esterne. Questa doppia legittimazione dei consigli, “dal basso” e “dall’alto”, rappresentava un evidente capovolgimento rispetto alla concezione delle commissioni interne, cui formalmente era stata negata la qualifica di organismi sindacali e non era riconosciuto il potere di contrattazione. Il “sindacato dei consigli” rappresentò comunque una grande innovazione dal punto di vista delle pratiche democratiche e delle elaborazioni rivendicative, anche se questo punto di approdo non fu scevro da conflitti e resistenze interne al costituendo sindacato unitario.
I consigli di fabbrica non furono mai riconosciuti formalmente con un accordo interconfederale o in un contratto nazionale di lavoro (furono però riconosciuti in alcuni accordi aziendali). Del resto il citato articolo 19 della legge 300/70 ha sempre riconosciuto, e tuttora riconosce, le Rsa come le rappresentanze del sindacato all’interno delle aziende e non come rappresentanti dei lavoratori. In ogni caso il sindacato abbandonò definitivamente l’istituto delle commissioni interne e riconobbe i consigli come le proprie strutture di base, in una sorta di rifondazione del proprio insediamento nelle aziende. La definizione di “strutture di base del sindacato” implicava la scelta del criterio elettivo come unica modalità di legittimazione della rappresentanza evitando forme di dualismo che erano possibili con la normativa dell’articolo 19. Contemporaneamente comportava il tentativo di instaurare un minimo di controllo sulle strutture consiliari da parte sindacale, infatti, si deve considerare che una parte considerevole dei militanti sindacali di allora riteneva il consiglio una forma di autorganizzazione della classe operaia e in quanto tale distinto o anche contrapposto alla struttura sindacale. Tali diversità di opinioni sono facilmente riscontrabili dalla lettura di alcuni statuti dei consigli di fabbrica stilati all’inizio degli anni ’70: alcuni testi proponevano il modello ricordato di “struttura di base del sindacato”, altri invece individuavano nel consiglio una forma di autorganizzazione dei lavoratori. Si deve aggiungere che la prima formulazione era prevalente[1]. La questione della natura di quella forma di rappresentanza era ulteriormente complicata dal fatto che nello stesso sindacato vi erano diverse teorie su cosa doveva essere il delegato e il consiglio di fabbrica, teorie che spesso erano in accesa polemica reciproca, come dimostrano gli storici contrasti su questo punto tra il sindacato lombardo e quello piemontese proprio sul ruolo del delegato: dal primo inteso come articolazione del sindacato in fabbrica e dall’altro come espressione autonoma della classe operaia in rapporto dialettico con il sindacato.
I poteri contrattuali del consiglio di fabbrica erano molto variegati in rapporto alla specifica situazione aziendale e ai rapporti di forza: non essendo l’organismo consigliare formalmente riconosciuto dalle controparti, i contratti nazionali di lavoro assegnavano alle Rsa alcuni poteri di controllo e contrattazione su alcune specifiche tematiche, anche se molti contratti aziendali avevano riconosciuto i consigli di fabbrica e stabilito ampi poteri contrattuali all’interno dell’azienda.
All’epoca era opinione corrente che l’organizzazione e la pratica consiliare fossero ispirate a un modello di “democrazia diretta”, sia per la particolare forma di elezione del delegato, sia per il continuo ricorso al giudizio dirimente dell’assemblea dei lavoratori per la validazione degli accordi sindacali. In realtà non vi era un modello di democrazia consiliare chiaro e definito per tutto il territorio nazionale: solamente alcuni consigli di fabbrica si erano dotati di appositi statuti che presentavano, però, regole e forme di democrazia con sostanziali differenze. In generale, tutto il periodo consiliare è stato caratterizzato da una forte informalità nelle regole di funzionamento: non vi erano periodi fissi per la rielezione generale dei consigli, né regole generali per il loro funzionamento interno. Tutto ciò determinava una strutturazione della rappresentanza di base disomogenea sul territorio nazionale e con regole e consuetudini segnate da profonde differenze. Un esempio concreto è la questione dei “distaccati”[2]. Alcuni consigli di fabbrica, normalmente delle aziende più grandi, avevano fatto la scelta di dotarsi di una struttura esecutiva costituita da una serie di delegati che facevano attività sindacale a tempo pieno. In questo caso prevaleva una concezione sindacale che considerava questa soluzione organizzativa uno strumento fondamentale per la gestione dell’azione sindacale interna, indispensabile per rendere operative le scelte più generali del consiglio. Questa scelta, però, non era condivisa dall’insieme del sindacato: molti consideravano i “distaccati” un’aberrazione organizzativa, una scelta che portava a una sorta di burocratizzazione sindacale della rappresentanza di base e a sostituire, nei rapporti contrattuali, il ruolo del consiglio con quello dei distaccati. Sta di fatto che su questi aspetti non fu mai fatta una scelta precisa, perciò ciascuna esperienza fu lasciata libera di praticare la propria strada. Alla Mirafiori, comunque, non è mai stata fatta la scelta del distacco, anche solo dei componenti degli Esecutivi. Nella realtà, nella seconda parte degli anni ’70, sono iniziati comportamenti sbagliati e non condivisibili nell’utilizzo del monte ore messo a disposizione dagli accordi. Nei fatti fu in parte utilizzato da alcuni delegati che divennero “distaccati” senza aver mai avuto il mandato dal Consiglio.
Anche la definizione del collegio elettorale era basata su criteri molto informali: dall’iniziale squadra o reparto, dove si eleggeva un solo delegato, nel corso degli anni ‘70 si passò a considerare aree più vaste dove si eleggevano più delegati. Questo processo derivava dalla necessità di tutelare le organizzazioni sindacali più piccole: infatti, il collegio che eleggeva un solo delegato presentava le caratteristiche elettorali del sistema maggioritario, mentre con l’elezione di più delegati nello stesso collegio ci si avvicinava di più al sistema proporzionale. Ovviamente ciò denunciava anche un qualche rafforzamento della presenza delle strutture sindacali esterne nella costituzione dei consigli, con un’attenuazione degli aspetti “movimentistici” che caratterizzavano i primi consigli di fabbrica. Ossia, per usare le categorie tipiche dell’epoca, questo era il segnale di un tendenziale passaggio dal “sindacato-movimento” al “sindacato-organizzazione”, con il tentativo di determinare un maggior controllo delle strutture sindacali esterne sugli atti e sui processi negoziali gestiti dai consigli.
In sostanza, l’informalità e l’assenza di regole generali caratterizzavano l’esperienza dei consigli, dove invece gli usi e le consuetudini aziendali rivestivano un ruolo importante. Questo riguardava anche un punto teorizzato come centrale, quello della consultazione vincolante dei lavoratori. Anche questo aspetto presentava gestioni difformi tra le diverse aziende, anzi si può affermare che il principio del potere sovrano dell’assemblea dei lavoratori non trovava sempre riscontri pratici. In ogni modo, la pratica dell’assemblea e del voto dei lavoratori sugli accordi era abbastanza diffusa, anche se presentava caratteristiche peculiari: il voto era sempre palese, per alzata di mano, poiché il voto segreto era valutato negativamente, essendo considerato in contrasto con lo spirito di partecipazione e di responsabilità diretta a cui faceva riferimento la pratica consiliare. Per lo stesso motivo non fu mai utilizzato lo strumento del referendum, introdotto dall’art. 21 della legge 300/70, e alcune proposte sindacali di un suo utilizzo, alla fine degli anni ’70, provocarono molte reazioni negative nel movimento dei consigli. Si deve necessariamente aggiungere che la grande carica di partecipazione esistente tra i lavoratori, soprattutto nella prima parte degli anni ’70, si collegava bene a un elevato grado di informalità delle procedure. In particolare i rinnovi contrattuali e le vertenze aziendali vedevano la mobilitazione di vaste masse di lavoratori che esercitavano in modo attivo il diritto di proposta sulle politiche rivendicative, modificando anche sostanzialmente le impostazioni iniziali. Nel suo momento massimo di diffusione, all’inizio degli anni ’80, la Federazione unitaria Cgil Cisl Uil aveva stimato l’esistenza di oltre 32.000 consigli in rappresentanza di circa cinque milioni di lavoratori[3].
I delegati alla Fiat
L’accordo aziendale del 26 giugno 1969 aveva introdotto notevoli cambiamenti nel regolare le condizioni di lavoro, tuttavia il punto più importante fu lo strumento sindacale individuato per controllare l’applicazione della regolamentazione delle linee: il Comitato linea, che era composto da un membro di C.I. per ciascuna organizzazione sindacale più una serie di esperti individuati tra i lavoratori, nella misura di uno ogni mille operai per ciascuna organizzazione sindacale. Gli esperti avevano diritto a permessi retribuiti per espletare i loro compiti di controllo nell’applicazione dell’accordo; l’accordo prevedeva che fossero nominati dalle organizzazioni sindacali, tuttavia queste, unitariamente, approfittarono di questa occasione per indire le elezioni dei rappresentanti tra tutti i lavoratori, tra i quali sarebbero stati scelti i 56 esperti riconosciuti dall’accordo erano nati i delegati sindacali. Complessivamente saranno circa 200 ( Io a dire il vero ricordo che erano 56 più 56 cioè 112, i primi eletti sulle linee, per l’accordo di giugno. Verifichiamo) i delegati eletti dai lavoratori in questa prima elezione. In un corso di formazione sindacale nel luglio del 1969 Sergio Garavini affermò:
“Dei 199 delegati eletti alle linee della Fiat, ce ne sono 70 iscritti ai sindacati, 28 iscritti alla Cgil, e noi consideriamo questo fatto un successo …”.
I delegati offrivano la possibilità di organizzarsi sindacalmente all’interno della fabbrica, di controllare l’organizzazione del lavoro sulle linee di montaggio, di costruire una nuova e diffusa leva di quadri sindacali.
L’accordo fu immediatamente oggetto di una violentissima polemica da una parte (Lotta Continua in testa) dei gruppi extraparlamentari, così definiti poiché molti studenti e intellettuali che facevano propaganda politica davanti alle fabbriche si erano costituiti in formazione politiche esterne ai tradizionali partiti politici presenti in Parlamento. L’accordo era contestato da “sinistra”, essendo considerato un tentativo sindacale di integrare la classe operaia nel sistema capitalista; in particolare fu attaccato il sistema dei delegati di linea, con la parola d’ordine “siamo tutti delegati”, proponendo la ripresa del conflitto con l’azienda. In realtà l’accordo può essere considerato un successo delle organizzazioni sindacali, che hanno saputo ricondurre a risposte concrete il disagio sociale e la rabbia dei lavoratori, traducendo un conflitto spesso radicale e confuso in strumenti contrattuali di gestione, anche per merito delle conoscenze acquisite sull’organizzazione della produzione.
Altri gruppi, come i CUB e il Collettivo Lenin, decisero invece che la decisione dei sindacati di procedere alla elezione dei delegati su scheda bianca e senza indicazioni precostituite, andava considerata come un risultato positivo, che apriva nuove e significative possibilità di iniziativa e di partecipazione. Si deve aggiungere però che non tutti i problemi erano superati, permanevano elementi di disagio sindacale rispetto a certe forme radicali di lotta operaia, che la debolezza organizzativa dei sindacati e la continua competizione con l’insieme delle formazioni politiche extraparlamentari, non consentivano di superare immediatamente.
Di certo, la esperienza dei mesi e degli anni successivi ci dice che, senza la presenza di una struttura, molto discussa, come il Consiglione, molto difficilmente sarebbe riuscito il governo dello scontro sociale, sia all’interno dello stabilimento, sia nella città di Torino. E, senza questa capacità di governo, che si è progressivamente affinata e rafforzata, difficilmente sarebbero mutati i rapporti di forza nella città, fino alla conquista del comune nel 1975.
L’accordo del 1971
L’accordo del 5 agosto 1971 introdusse una norma non prevista nella piattaforma: la struttura dei comitati sindacali, ognuno dei quali con competenze contrattuali sugli aspetti più importanti previsti nell’accordo cottimo, ambiente, qualifiche operai e qualifiche impiegati. Si trattava di una forma di specializzazione contrattuale proposta dall’azienda: l’accordo stabiliva esclusivamente la composizione sindacale, definita in sei delegati per comitato. L’interpretazione sindacale più accreditata sul perché la Fiat avesse proposto la struttura dei Comitati verteva sulla volontà aziendale di avere delle controparti sindacali specializzate, affidabili e competenti sui diversi argomenti. Questo emerge anche dalle dichiarazioni dei dirigenti Fiat dell’epoca[4] che concepivano i Comitati come strumenti di verifica, confronto e dialogo, ma non come sedi negoziali; infatti, la contrattazione doveva rimanere una funzione gestita centralmente. Si trattava però di distinzioni molto sottili, difficili da mantenere nella pratica, a fronte di un’offensiva sindacale che chiedeva un forte cambiamento nei modi di produzione e poteva contare su rapporti di forza considerevoli.
Non fu raggiunto l’obiettivo del riconoscimento del Consiglio di fabbrica, ma comunque fu raddoppiato il numero dei Rappresentanti sindacali aziendali (Rsa) previsti dalla legge, con l’escamotage degli “esperti”, nuove figure di rappresentanti formalmente subordinate agli Rsa; fu concordato un elevato monte ore sindacale di permessi annui retribuiti (3 ore annue per occupato). Una parte specifica era destinata agli impiegati poiché, oltre allo specifico Comitato qualifiche, si introducevano criteri integrativi per i passaggi di categoria.
Nell’immediato l’effetto più evidente fu il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’estensione della rete dei delegati, che consentì il consolidamento organizzativo delle strutture sindacali nelle officine e negli uffici. In tutta la Fiat si costituirono 226 Comitati, così suddivisi: 60 per i Cottimi, 83 per le qualifiche, 83 per l’ambiente di lavoro. Considerando l’insieme dei sindacati presenti (Fim, Fiom, Uilm, Sida e Cisnal) i rappresentanti sindacali erano 1.800[5]. Fim, Fiom e Uilm definirono formalmente un Coordinamento nazionale del Gruppo con 90 rappresentanti di tutti gli stabilimenti, il 65% di questi rappresentavano gli stabilimenti in provincia di Torino. Per quanto riguarda lo stabilimento di Mirafiori, l’analisi quantitativa del’elezione dei delegati del 1976 è riportata dalla pubblicazione il CONSIGLIONE N. 9.
Pochi anni dopo, nel 1977, la Fiat affermava che nei suoi stabilimenti, tra tutte le organizzazioni sindacali, si potevano contare circa 4.100 tra Rsa, esperti e membri di C.I., quest’ultimi ormai ridotti a 140[6]; come si può osservare si trattò di un notevole salto di qualità rispetto ai 232 membri di C.I. e i le poche centinaia di militanti sindacali di 10 anni prima.
In quegli anni tra molti delegati sindacali della Fiat vi era un’evidente “allergia” a qualsiasi forma di strutturazione e gerarchizzazione delle rappresentanze sindacali: i primi dibattiti su come dotare il Consiglione di Mirafiori di strutture proprie, come un esecutivo, si conclusero con un nulla di fatto. Ciò era un evidente prodotto deformato della cultura dell’egualitarismo, che portava a considerare come negativa qualsiasi forma che differenziasse gli appartenenti alla rappresentanza sindacale o che prevedesse una priorità nei rapporti con l’azienda; più in generale vi era un atteggiamento che portava a sottovalutare gli aspetti organizzativi dell’agire sindacale e a privilegiare lo “spontaneismo” e “l’autonomia” dei lavoratori. Erano posizioni molto ideologiche, ma le stesse organizzazioni sindacali non insistettero molto sul dotare il Consiglione di una struttura organizzata.
L’esperienza dei consigli di fabbrica era basata sulla grande partecipazione dei lavoratori e sul processo di unità sindacale: quando questi due fattori entrarono in crisi, alla fine degli anni ’70, si verificò il progressivo degrado di quell’esperienza e riemerse la contraddizione tra la pratica informale di rappresentanza applicata e le regole formali sancite dall’articolo 19 dello Statuto. La rottura del patto federativo tra Cgil, Cisl e Uil nel 1984, per effetto della vicenda legata all’accordo di San Valentino sulla scala mobile, pose inevitabilmente il problema di trovare un nuovo assetto nelle relazioni sindacali.
Nel frattempo le pratiche di democrazia sindacale ebbero una notevole involuzione: l’affermarsi di un pluralismo sindacale competitivo mise in crisi le capacità autoregolative del sistema sindacale italiano, aprendo seri interrogativi sulla presunzione di “maggiore rappresentatività”, attribuita in precedenza ai sindacati confederali. Per lungo tempo le elezioni dei delegati sindacali non furono effettuate in molte aziende; in alcuni casi si arrivò alla nomina delle Rsa da parte sindacale in conformità con quanto stabilito dalla legge 300/70. In questi casi la nomina della rappresentanza avveniva pariteticamente tra le tre organizzazioni sindacali senza l’obbligo della verifica elettorale tra i lavoratori. La democrazia sindacale era molto precaria, segnata da una ripresa di accordi separati che rendevano impossibile qualsiasi forma di consultazione nei confronti dei lavoratori interessati. Contemporaneamente emergevano nuovi sindacati extra confederali, autonomi, professionali, che danno l’impressione di erodere le tradizionali basi di rappresentanza di Cgil, Cisl e Uil.
[2] Così definiti poiché erano dei delegati esentati dall’attività produttiva, che operavano a tempo pieno in permesso sindacale.
[3] Ida Regalia – Rappresentanze sindacali unitarie: quali regole?, pag. 33.
[4] Giuseppe Berta – Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, pag. 118.
[5] La Fiat in cifre, pag. 34.
[6] Fiat 1978, pag. 245.